C’erano una volta le licenze, le distanze minime, il registro per gli esercenti del commercio… Oggi il fardello della burocrazia e delle regole si è molto alleggerito e aprire un bar o subentrare in un’attività di somministrazione sembrerebbe più semplice. E, difatti, lo è. Sono anche i numeri a dimostrarlo. Negli ultimi 5 anni i pubblici esercizi sono aumentati di quasi il 7%, raggiungendo quota 334mila, il numero più alto d’Europa (fonte Confesercenti). In media 4.500 imprese in più ogni anno. Ad aumentare sono soprattutto le attività di catering (+9,4%), seguite dalle attività di ristorazione (+4,7%). Tra queste ultime spicca la crescita dei ristoranti attivi nella preparazione dei cibi d’asporto (+13,8%), un ritmo quasi doppio rispetto a quello dei ristoranti con somministrazione assistita (+7,2%). Ma vola anche lo street food (+40,9%). Più lenta, invece, l’espansione di bar e di esercizi senza cucina, che registrano un incremento intorno allo 0,8%. Questa però è solo una faccia della medaglia. A fronte di un abbassamento delle barriere d’entrata e di una congiuntura caratterizzata da bassa inflazione e consumi al palo, il pubblico esercizio deve fare i conti con una concorrenza ormai fuori controllo e costi di gestione altrettanto incontrollabili. Sul fronte del conto economico, l’imputato numero uno è il cosiddetto “caro affitti” che sta obbligando non pochi gestori della Penisola a gettare la spugna. Parliamo non di canoni di locali o negozi i in vie qualsiasi ma di affitti relativi a soluzioni ben posizionate nelle high street delle metropoli e delle città interessate da importanti flussi turistici (vedi a pagina 112 le quotazioni retail in alcune vie di passaggio e non, in grandi città italiane).
Food invasion
Secondo la banca dati del Gruppo Tecnocasa, emerge che tra le imprese che nel 2017 hanno ricercato locali in locazione, ben il 28% intendeva aprire un’attività di ristorazione-somministrazione. Oggi, la food experience, spiegano gli esperti di Tecnocasa, è sempre più importante e ha portato alla creazione di nuovi format e alla conseguente richiesta di spazi non sempre disponibili sul mercato. Tale domanda, si prevede, persisterà anche nel 2018. «Il settore della ristorazione che oggi sta alimentando la maggioranza delle richieste di locazione di immobili commerciali si prospetta ancora in fermento - conferma Fabiana Megliola, responsabile ufficio studi Gruppo Tecnocasa -. E va confermandosi anche nel 2018 il forte legame tra l’attrattività turistica delle città e la ricerca di immobili per il retail».
Parametri e valori
D’altronde basta guardarsi intorno per rendersi conto di quella che potremmo chiamare una vera e propria food invasion con una proliferazione di format, i più eccentrici e diversi, dedicati soprattutto alla somministrazione non assistita. «Aver scardinato il sistema delle licenze- commenta Giovanni Larini, esperto immobiliare e ideatore e coordinatore nazionale del Listino dei Prezzi delle Aziende edito da Fimaa-Confcommercio - ha portato alla situazione attuale dove non esiste nessun filtro o barriera. Ma la cosa più grave è che non esiste nemmeno più un parametro di riferimento: in passato chi subentrava in un’attività di somministrazione doveva farsi rilasciare dal gestore la licenza d’esercizio. Questo documento aveva un valore economico, in quanto allora le licenze era contingentate, e costituiva di fatto un indicatore utile per calcolare l’impegno economico e finanziario richiesto dall’attività. Oggi, il gestore entra spesso in spazi nuovi e non ha nessuna idea delle criticità del business che sta per intraprendere. Per iniziare gli basta una Scia, una segnalazione certificata di inizio attività, ma se non valuta attentamente l’incidenza del canone di affitto (che non dovrebbe mai superare il 10-13% del giro d’affari) nel momento in cui si presenta una situazione di calo degli incassi rischia di finire subito in rosso. Si sa che chi avvia un’attività imprenditoriale e non ha grande esperienza pecca spesso di un eccesso di autostima: ai tempi delle licenze esistevano meccanismi di salvaguardia e di protezione, rappresentati, ad esempio, dalle distanze minime, che tutelavano anche l’imprenditore meno cauto o preparato. Oggi il mercato non perdona e per chi sbaglia non esistono prove d’appello». Secondo Larini, lo stock di 334mila esercizi è certo frutto della deregulation ma non è tutto oro quel che luccica: il dinamismo non dice nulla sull’elevata mortalità del comparto. «Si registra - aggiunge l’esperto - un forte turn over di imprese. Soprattutto si tratta di start up che spesso non riescono a raggiungere l’anno di vita».Una situazione di iperconcorrenza comune a molte città. Emblematico il caso di Lucca dove Benedetto Stefani, presidente provinciale di Fipe Ristoratori Confcommercio denuncia da tempo non solo il caro affitti, ma anche un boom indiscriminato di aperture nel centro storico. «Negli ultimi anni - spiega il dirigente sindacale - la mia città ha conosciuto una crescita esponenziale di attività di somministrazione assistita e non, che hanno prodotto un’offerta del tutto sproporzionata rispetto alla reale domanda con ricadute molto pesanti soprattutto sui locali di più recente apertura e di capacità ridotte. Molti hanno dovuto chiudere i battenti, anche perché la pressione è diventata insostenibile: i gestori devono confrontarsi con tariffe in continuo aumento, canoni a volte addirittura raddoppiati e a una iperconcorrenza che non giova a nessuno. Anzi, spesso e volentieri, le nuove aperture hanno prodotto gravi danni all’immagine della cucina tipica lucchese, alla qualità del nostro settore e al decoro stesso della città sempre più somigliante a un mangificio. Di recente abbiamo, dunque, richiesto all’amministrazione comunale di decretare, una moratoria di 2 anni che oltre a riguardare bar e paninoteche interessi anche ristoranti e negozi di vicinato. Ma a mesi di distanza dalla nostra richiesta, attualmente all’attenzione della Regione Toscana, siamo in attesa di una risposta». A Lucca, in realtà, una moratoria c’è già stata e ha riguardato bar e paninoteche ubicate in alcune zone del centro . Quello che chiede oggi Stefani è di allargare lo stop a ristoranti e a negozi di vicinato sull’esempio di un analogo provvedimento adottato dal comune di Firenze che per 3 anni ha bloccato le aperture in determinate aree . Fuori dai centri urbani, le condizioni possono essere altrettanto sfidanti. E se una volta il centro commerciale era una scelta “sicura” in termini di business, oggi sembra esserlo meno. «Di norma negli shopping center - spiega Gino Pagliuca, esperto di tematiche immobiliari e giornalista di Corriere L’Economia - i negozi o i pubblici esercizi non stipulano un contratto di locazione immobiliare ma un contratto di affitto di ramo d’azienda. Il canone non solo è libero, ma a differenza di quanto succede con le locazioni immobiliari, lo si può ancorare agli incassi, stabilendo un minimo garantito. Anche in questo caso i canoni delle strutture a maggior attrattività hanno toccato livelli molto alti. Ad esempio, in alcuni casi si sono superati i 1.000 euro per mq per locali medio piccoli in strutture top, quelle che si distinguono per dimensione, superficie, bacino di utenza e traffico di clienti che sono in grado di generare. Tenuto conto che queste strutture in Italia sono solo 11 e che il settore sta vivendo una congiuntura non proprio positiva, l’opzione centro commerciale può rivelarsi, se non attentamente studiata, molto rischiosa».
Cedolare secca?
Tornando al caro-affitti, una via d’uscita potrebbe essere costituta dall’introduzione della cedolare secca per le locazioni retail. È una proposta avanzata da Confcommercio, Confesercenti e Confedilizia e servirebbe a mitigare l’impatto dei canoni. «È una misura già adottata per l’abitativo - commenta Pagliuca - e consiste in un prelievo tutto compreso del 21% sui canoni. L’aliquota scende al 10% se si adottano canoni calmierati. Tuttavia, ci sono poche speranze che questo regime venga applicato: nelle locazioni commerciali il gestore detrae l’intero canone e concedendo la cedolare secca il fisco finirebbe per non guadagnare nulla o addirittura perderci». Insomma, forse, si stava meglio quando si stava peggio.