Prosegue la proposta di alcuni dei contributi delle professioniste interpellate per la realizzazione dell’articolo “Vi fidereste di una barista?” pubblicato sul numero di marzo di Bargiornale. La parola ora va a chi ha trovato la propria realizzazione oltre frontiera: Valentina Dalla Corte, fondatrice e responsabile di Dalla Corte Ibèrica. “Il mio ingresso nel mondo del caffè risale a 10-11 anni fa, dopo gli studi in psicologia. Per un anno ho collaborato con l’azienda italiana, che a quel tempo era alle sue origini, poi mi è stato chiesto di viaggiare in Spagna per verificare la situazione della distribuzione dei nostri prodotti e sono partita per l’avventura. Mi è piaciuto l’ambiente, avevo voglia di mettermi alla prova in una nuova realtà. L’idea era di rimanere qualche anno, un periodo che poi si è dilatato a 10 anni”.
Il fatto di essere donna ha creato difficoltà durante il tuo percorso?
«Essere donna e giovane sono stati fattori che all’inizio mi hanno creato qualche difficoltà nell’introdurmi nel settore, ho dovuto accettare atteggiamenti che adesso non accetterei più. Alle volte venivo trattata come una ragazzina, salvabile solo per il buon cognome che portavo. La prima reazione è stata di trasformarmi in un uomo, perchè pensavo fosse l’unico modo per farmi accettare. Mi sono presto resa conto di non essere sulla strada giusta: la mia professionalità non doveva essere messa in dubbio dal mio modo di vestire e neppure dovevo atteggiarmi come un uomo; è stata un’operazione difficile che ha chiesto molto impegno, ma ce l’ho fatta. La nuova sfida che sto affrontando ora è quella della maternità: non è facile conciliare il lavoro con l’essere madre, perché la donna ha un ruolo chiave nell’educazione dei figli e nella gestione della casa. Pur avendo un compagno molto collaborativo, ci sono alcuni momenti in cui si hanno troppe responsabilità ed è difficile dedicare tempo di qualità a tutto. A mia figlia voglio dare tutta l’attenzione possibile, come pure alla mia attività. Questo perfezionismo in famiglia e sul lavoro costa a livello fisico e umano».
Secondo te, le donne hanno quel qualcosa in più da dare al mondo del caffè?
«Le donne possono dare tanto al mondo del caffè soprattutto in termini di complessità e capacità di entrare in sintonia con chi hanno davanti: ciò che distingue l’approccio femminile da quello maschile è la nostra empatia, ne siamo capaci per natura. Queste qualità possono dare tanto al business a tutti i livelli. Andare in un paese d’origine e capire meglio le persone che ci vivono, cercare di andare a fondo dei bisogni che si hanno lungo tutta la catena, essere più precisi e olistici. Le donne hanno una visione ampia e questo nel lungo termine aiuta a creare un progetto interessante. Da parte mia ho fondato e cerco di condurre (di nuovo il tempo è tiranno) un’associazione dedicata alle donne e il caffè: Dona Cafe. Abbiamo tre obiettivi, promuovere il consumo di specialty, sostenere la presenza di donne con una certa professionalità nel mercato, aiutare persone che non hanno lavoro e possibilità di accedere allo studio per frequentare corsi di formazione al fine di dare la possibilità di trovare un lavoro e vivere una vita dignitosa a chi altrimenti non se lo potrebbe permettere. Si tratta di un progetto complesso che richiede fondi, tempo e tanta energia».
Come riesci a fare tutto questo?
«Ho imparato a non perdere tempo. Essere determinati alle volte porta ad essere antipatici, cerco di non arrivare a questo limite e di farlo senza perdere la mia umanità. La creatività mi è sempre stata utile, mi piace creare, pensare, fare progetti. Mi piacerebbe coinvolgere le donne in tutte le attività che posso offrire perché penso che sia il momento storico giusto. Qualsiasi pregiudizio e maschilismo nelle aziende sono vecchi».