Cocktail “selvaggi” con il foraging

Foraging
Con erbe e frutti selvatici non si scherza, avverte l'esperta Valeria Margherita Mosca, occorre farsi una cultura per saper distinguere le specie edibili. Non solo, il fine è creare una miscelazione più responsabile

Agli inizi degli anni Duemila i primi a “riscoprire” che in natura esiste una grande varietà di cibo selvatico che può essere raccolta e utilizzata per realizzare piatti e menu sono stati gli chef nordici come il danese René Redzepi, famoso chef stellato del Noma di Copenaghen, o lo svedese Magnus Nilsson. Erbe fresche, frutti del sottobosco, radici, funghi, licheni, alghe ecc. sono così divenuti gli ingredienti di una cucina di frontiera autoctona e fondata su valori importanti come la sostenibilità ambientale, la biodiversità, l’identità culturale. Dall’alta ristorazione alla miscelazione d’autore, il passaggio è stato breve anche se non immediato. E oggi sono sempre più numerosi i bartender, anche italiani, che dedicano tempo e risorse al cosiddetto foraging e cioè alla raccolta di erbe selvatiche (soprattutto) utilizzate come base per creare succhi, sciroppi o distillati home made.

Il foraging

Il foraging non è però un hobby da perdigiorno o un passatempo. È una vera e propria arte, come la definisce Valeria Margherita Mosca nel suo ultimo libro (“Imparare l’arte del foraging. Conoscere, raccogliere, consumare il cibo selvatico”, 384 pagine, Giunti): un’arte che richiede solide basi scientifiche e culturali.
Non solo è necessario avere una buona preparazione botanica per saper riconoscere sul campo le specie edibili, ma anche una buona consapevolezza ambientale. Per saperne di più abbiamo incontrato l’esperta (quasi 41mila follower su Instagram) a Manduria in Puglia nel corso di un recente workshop dedicato alle erbe mediterranee in programma a Med Transfers, piattaforma creata da Gin Mare per diffondere l’anima del distillato.
Mosca si occupa di foraging da oltre dieci anni, dunque prima che diventasse una moda.

Wood*ing, dal laboratorio al bar

Nel 2010 fonda il Wood*ing wild food lab, laboratorio di ricerca e sperimentazione sull’utilizzo del cibo selvatico per l’alimentazione e la nutrizione umana, nel 2016 dà alle stampe per Mondadori insieme a Enrico Vignoli e a Stefano Tosoni “Wild Mixology”, ricettario con 30 cocktail a base di ingredienti selvatici e, l’anno successivo, inaugura a Milano, nel quartiere Isola, il Wood*ing bar, punto di riferimento per una nuova filosofia di miscelazione (oggi il locale si è trasferito a Courmayeur).
«L’esperienza del Wood*ing Bar - racconta - non è mai stata un business, ma un progetto di divulgazione itinerante. La scelta di aprire un bar è dipesa dal fatto che la miscelazione, a differenza della cucina, resta ancora un terreno vergine dove esiste un grande numero di professionisti interessati a sperimentare e a fare ricerca. Nel nostro lab sono passati in molti come Giuseppe Mancini, la squadra del Jerry Thomas, Marco Russo e Flavio Angiolillo del Mag Cafè ecc. Abbiamo trasformato un atto ricreativo, come quello di degustare un drink, in qualcosa di più consapevole e, per la prima volta, abbiamo parlato di una miscelazione più salutare, grazie all’utilizzo di bevande fermentate ricche di batteri probiotici, e di sostituzione di ingredienti esotici ad alto impatto ambientale come il lime. Purtroppo, almeno a Milano, la risposta dei consumatori non è stata entusiasmante. Abbiamo incontrato forti resistenze e anche un po’ di diffidenza».

Le regole per la raccolta

Come dicevamo, raccogliere i frutti spontanei della natura non è una mera “pratica”, ma un’attività a più dimensioni. E per capirne il reale significato bisogna conoscerne la storia. «Le radici del foraging sono nell’alimurgia, scienza che riconosce l’utilità di cibarsi di piante selvatiche soprattutto in tempi di carestia. Una vera e propria scienza detenuta storicamente dai monaci che grazie al cibo selvatico avevano creato un’economia di sussistenza (anche oggi, tra l’altro, il cibo spontaneo potrebbe costituire una riserva di cibo commestibile per le popolazioni rurali o a rischio alimentare, ndr). Detto questo, il foraging porta a stare nella natura e quindi massimo deve essere il rispetto dell’ecosistema. Esistono precise regole di raccolta volte a preservarne l’integrità e quello che facciamo noi è un foraging di tipo conservativo che si concentra sulle specie invasive». L’approccio alla raccolta deve essere quindi frutto di un impegno in campo formativo. «Esatto. Il bartender deve obbligatoriamente investire in formazione: botanica, erboristeria, tossicologia ecc. Con il foraging non si scherza: esistono in natura molte piante  con un profilo organolettico straordinario e perfette per essere impiegate anche nella miscelazione che hanno dei sosia pericolosissimi o, addirittura, mortali. È il caso dell’abete rosso che ha come sosia il tasso, Taxus baccata, che è una delle piante più tossiche esistenti in Italia. Un’altra avvertenza riguarda il fatto che in genere le erbe selvatiche hanno principi attivi e nutrizionali molto elevati. Un caso tipico è la piantaggine, pianta officinale che cresce praticamente ovunque, della quale però, proprio per le sue proprietà, ne è sconsigliato il consumo a persone che assumono anticoagulanti».

Per chi è agli inizi, prima di cimentarsi nella raccolta di specie particolari, è, dunque, consigliabile un approccio soft, puntando alla creazione di mix semplici. «Assolutamente sì. Si possono, ad esempio, facilmente raccogliere i frutti della rosa canina che si chiamano cinorridi, carnosi come dei pomodori e ricchissimi di vitamina C. Dopo averli puliti dei semi e della peluria, si passano al mulinetto ottenendo un succo rosso con un gusto simile a quello del succo di pomodoro: una base perfetta per preparare un Bloody Mary wild. Un altro spunto può venire dal timo selvatico, estremamente diffuso in media e alta montagna, che può essere utilizzato per aromatizzare una soda da miscelare con un gin molto aromatico». Si tenga conto, infine, che non ci sono norme che disciplinano in maniera specifica la somministrazione di ingredienti “selvatici”. «Non esiste nessun divieto - conclude Mosca - se non il rigoroso rispetto del piano di autocontrollo dove l’esercente deve specificare la tracciabilità degli ingredienti utilizzati insieme alle modalità di preparazione e alle tecniche di conservazione, manipolazione, trasformazione e somministrazione».

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