Ada Coleman, la donna che scrisse la storia del bartending

Ada Coleman
Ada Coleman
Un ritratto di Ada Coleman, regina del bartending vissuta a cavallo tra due secoli, prima head bartender dell’American Bar del Savoy Hotel di Londra

In occasione dell’8 marzo vogliamo omaggiare Ada Coleman (1875- 1966). Una donna che ha segnato la storia del bartending per i suoi drink, ma soprattutto per il suo altissimo concetto di ospitalità e savoir-faire. Vissuta a cavallo tra i due secoli, head bartender dell’American Bar del Savoy di Londra, donna di gusto inarrivabile, confidente di regnanti, politici, attori, ha rappresentato un paradigma per coloro che si sono succeduti al banco dell’American Bar. A partire dal “divino” Harry Craddock. Nel raccontarvi di Ada, detta Coley e originaria del Kent, non ricorreremo troppo a notizie biografiche, né confezioneremo la solita lezioncina. Anche perché le biografie si trovano in Internet. Quindi, a che serve ripetere il già detto? Piuttosto abbiamo l’obiettivo di fornire spunti più specialistici e raccontare il “forse non tutti sanno che...”. Lo faremo attingendo prevalentemente ad articoli recenti e, soprattutto, a interviste d’epoca che trovate sul nostro sito nella sezione Il Bibliotecario. Ada Coleman era protettiva verso il suo lavoro e verso se stessa. E doveva esserlo visto i tempi e la società in cui viveva. Gli attacchi al lavoro delle barmaid arrivavano da tutti i fronti. C’era il movimento londinese a favore dei diritti delle donne, la National Women Workers, che proponeva l’abolizione del lavoro di barmaid perché ritenuto osceno e poco onesto (New Age, febbraio 1903). Peggio andava solo negli Stati Uniti dove il problema l’avevano già eradicato visto che, in base a un censimento sulla popolazione lavorativa americana (1895), le donne che servivano liquori erano solo 147 su una popolazione di 55.660 uomini (The Wall Street Journal, 25 aprile, 2009). Una delle tante battute ricorrenti era: “Vi pare normale che la mano che dondola la culla mescoli il Whisky Sour?”. Harry Craddock, che prese il posto nel 1926 della Coleman, nel suo ricettario Savoy Cocktail Book, alla voce Sanctuary Cocktail, scrive: “...ancora oggi (nel 1930) le signore non possono accedere all’American Cocktail Bar del Savoy”. Il Savoy, quindi, era un “santuario” dove le donne non potevano accedere. Che sia humor (nero) e sessista, o solo una frase, va inquadrata nel periodo storico. Quel che è certo, come ho scritto in Cocktail Safari, è che al tempo una donna dietro al banco era merce più rara di un fan dei Metallica al concerto di Gigi d’Alessio. E all’American Bar del Savoy, detto così per il bar realizzato in stile americano dal bartender Frank Wells prima che arrivasse la Coleman, di donne in realtà ce n’erano due. L’altra era Ruth Burgess, detta Bunty (Variety, New York, 1926). La questione dei soprannomi, Coley e Bunty, non è di secondaria importanza. Tanti ospiti del Savoy erano americani che volevano essere serviti dalle mani di un uomo. Per proteggerle e tutelarle da clienti molesti, si usavano nomi di fantasia per proteggere i veri cognomi. Le due bartender non avevano un buon rapporto. Basti menzionare il titolo di un articolo uscito il 16 febbraio del 1926 sul quotidiano The Aspen Daily Times: “Due famose bar maids che hanno lavorato per vent’anni allo stesso banco vanno in pensione, senza essersi mai parlate”. In realtà Miss B, altro soprannome di Ruth Burgess, ci aveva provato ma pare senza grande successo. Le aveva chiesto le sue ricette di cocktail ma Ada, come dicevamo, era protettiva anche da questo punto di vista. Lo sapevano tutti, compreso Craddock, che nel 1920, tornato a Londra dagli Stati Uniti causa Volstead Act (Proibizionismo), scrutò per cinque anni la sua head bartender Ada Coleman. “Era rintanato dietro le quinte dell’American Bar del Savoy, sfornando cocktail dal bar di servizio” (Theodore Sutcliffe, Difford’s Guide). Ada è diventata famosa per il Coley anche detto Hanky-Panky (Variety, 1926) così battezzato dall’attore Sir Charles Henry Hautrey. In realtà, quando Ada appenderà lo shaker al chiodo, racconterà e sarà ricordata non solo per i drink, ma per il grande lavoro quotidiano che passava anche dai piccoli gesti. Come quello di avere sempre sul banco un vaso con i fiori freschi. L’articolo più completo ed esaustivo che abbiamo trovato sul suo conto è un paginone uscito sul Niagara Falls Gazette nel febbraio 1926 (è un’altra sorpresa che trovate nel nostro sito). “...Busy! Devo dire che ero impegnata tutto il giorno. Soprattutto poco prima dell’ora di pranzo e altrettanto prima di cena! Il maggior numero di cocktail che abbia mai servito è stato trecento in quindici minuti. Sembra incredibile, vero? Ma era per una grande cena e avevo già diversi shaker con gli ingredienti pronti. Aspettavo solo che mi dessero il via. Poi, man mano che questi venivano versati, inventavo e proponevo altri drink. Ricordo che dopo il mio braccio mi fece male per giorni!”. Questo il racconto di H.C. Norris, corrispondente da Londra del Niagara Falls Gazette: “Il desiderio di un lavoro meno faticoso, combinato con il “gomito del bartender” che la infastidiva di tanto in tanto, ha fatto sì che Coley, come è nota a migliaia di visitatori americani, si trasferisse nel negozio di fiori dell’hotel, da dove non è improbabile che possa aver preso la direzione di una piccola osteria di campagna. È stato nel negozio di fiori che l’ho trovata, l’altro pomeriggio, mentre languidamente osservava un vaso di erica rossa”. 

Lascia un commento

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome