C’è una tazza di caffè con panna che fuma sul tavolino stretto di un bar di Soho, l’ex enclave a luci rosse divenuto nei decenni uno dei quartieri più cosmopoliti e vivi della Londra notturna. Roberta Mariani le siede davanti, mentre ripercorre le tappe della sua carriera e punta i fari su temi caldi come benessere dei bartender, inclusività, formazione. Ex bar manager del Bar Termini e successivamente Global Brand Ambassador per Martini, con cui si è affermata come una delle maggiori esperte di vermouth e aperitivi nel mondo, Mariani rappresenta oggi Italicus e Savoia come Global Advocacy Director, facendosi ambasciatrice dell’aperitivo italiano e della cultura del bere responsabile: è lei l’ospite della nuova puntata di Off the record.

Siamo a pochi metri dal Bar Termini, dove hai costruito e consolidato la tua carriera. Ti manca il banco?
Mi manca la routine del bar, nello stesso modo in cui non mi manca. Mi manca l'umanità che si incontrava ogni giorno, gli ospiti abituali che prendevano il caffè alla mattina e il drink alla sera, la comunità che avevamo creato in uno spazio per tutti i giorni, tutto il giorno. Il bar in sé e per sé, onestamente, non mi manca così tanto, anche perché continuo a far parte della comunità in cui sono cresciuta e ne vivo la parte più bella e creativa, senza la monotonia del quotidiano.

«Lavorare al bar è come viaggiare su una giostra, non è facile rendersi conto di quello che succede»

Cosa non ti manca affatto?
Dover seguire regole e principi dettati da altri e che io ho realizzato troppo tardi di non condividere. Lavorare al bar è come viaggiare su una giostra, paradossalmente non è mai facile rendersi conto di quello che succede nel quotidiano: avevo finito con il portare avanti una linea di lavoro, con dipendenti e colleghi, che non mi rappresentava. Non mi manca l’idea di mantenere degli standard irreali, la pressione messa su ragazzi spesso giovanissimi: allora più di oggi si entrava in meccanismi per i quali si finiva per “sacrificare” le persone per un obiettivo più alto. Avrei voluto capirlo prima per aiutare il mio team meglio.

Nove anni fa ormai, nel 2016, il passaggio in azienda: è questa l'unica evoluzione naturale per la carriera di un bartender?
Assolutamente no, anzi. Esistono molte strade per rimanere nell’industria del bar: se sì è creativi si può lavorare nelle PR, nel design, nella fotografia di settore. Ci sono vari sbocchi, il brand ambassador è il ruolo più appariscente perché ai più sembra una vita da rockstar, ma dietro c'è una mole di lavoro invisibile. Si può lavorare in distilleria, in produzione: è limitativo pensare che l'alternativa al fare le tre di notte sia lavorare per un brand, a maggior ragione se ci si svende per farlo.

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Roberta Mariani

Cosa intendi?
Essere brand ambassador significa rappresentare un'azienda in ogni momento, per cui serve credere nel prodotto e nei suoi valori o standard, altrimenti si diventa merce a nostra volta e si rischia di sgretolare la nostra credibilità. Se lavori per dieci anni in un tiki bar e poi finisci a fare l’ambassador di un gin, a miscelare Martini Cocktail, non ha senso. Io sono passata da un aperitivo bar a rappresentare l'aperitivo italiano, e credo questa coerenza sia fondamentale: serve comprendere che si dovrebbe dire di no più spesso.

A proposito di aziende in generale: come giudichi l'operato dei player più importanti, in tema di formazione e sviluppo dei professionisti?
Credo esistano dei cicli. Molte aziende hanno proposte interessanti, ma sono limitate nello spazio e nel tempo, come se progetti del genere fossero una spunta da mettere su una lista, “cose che vanno fatte”. Serve invece continuità: la cosiddetta advocacy non ha effetti immediati, è un investimento sulla connessione che l’azienda crea con i bartender e spesso le aziende stesse non lo comprendono. Di conseguenza gli investimenti si riducono, sia per denaro che per tempo.

C’è una responsabilità da parte degli ambassador stessi?
Magari non direttamente delle figure specifiche. Ma in media le risorse che lavorano per i brand ricoprono un ruolo per due anni, prima di richiedere o rincorrere uno scatto di carriera. In molte realtà è presente un sistema di obiettivi da raggiungere a breve termine, per cui non interessa a nessuno creare programmi a lungo termine.

«Si rischia di ridurre ogni interazione a una sterile transazione»

Più di una grande azienda sta di fatto spostando le attività degli ambassador dall’advocacy al commerciale, riducendo il ruolo di ex bartender a quello di venditori. Ci sono rischi?
L'obiettivo ultimo di ogni azienda è vendere, questo è indubbio ed è giusto sia così. Ma si perde di vista il ruolo dei bar e dei bartender: le aziende dimenticano che il consumatore finale si fida delle raccomandazioni dei professionisti. Sono loro che suggeriscono novità, intuiscono quali prodotti spingere in base ai gusti degli ospiti, e così via. Si rischia di ridurre ogni interazione a una sterile transazione, per lo più a breve termine e dettata da brand con grandi budget da allocare. L'investimento sulla formazione dei bartender ha un ritorno dieci volte maggiore rispetto alla singola vendita del prodotto, fosse anche solo per il passaparola tra professionisti. Purtroppo però non è una grandezza tangibile, non ci sono report in merito; eppure è fondamentale.

Uno degli argomenti per i quali ti batti di più è il cosiddetto well-being, il benessere a tutto tondo dei bartender. A che punto siamo in merito?
C'è sufficiente consapevolezza, ma nel pratico si fa poco o nulla. Bisognerebbe parlarne di più, per cominciare, e poi implementare le pratiche di cui c’è bisogno. È facile puntare il dito sui problemi, ma quando si guarda alle soluzioni se ne trovano ben poche e altrettanto poco si fa per cercarle.

Quindi chi dovrebbe spingere su questi temi? I bartender, gli imprenditori, le aziende?
È una combinazione di fattori. Dopo il Covid ci si è resi conto di quanto per certi versi estrema sia la professione del bartender: i ritmi sono forsennati, si dorme poco e male, l'alimentazione è scorretta, si abusa di caffè e alcool. Ci si è resi conto che si può stare meglio, ma a fronte delle richieste, le azioni sono poche. Sì, i proprietari dei locali devono mettere il proprio staff nelle giuste condizioni, ma tu bartender, cosa fai per stare meglio? Vai a dormire a orari consoni, quando puoi? Tra patatine fritte e verdure cosa scegli? Fai esercizio fisico regolarmente? Nel tuo giorno libero vai a bere o ti dedichi a qualche altra attività costruttiva? Perché solo se fai il tuo massimo, puoi pretendere il massimo.

Ci sono degli esempi tangibili di questo, peraltro.
Ne ho parlato recentemente con Carina Soto Velasquez (proprietaria di Candelaria a Parigi e Equal Parts a Londra, ndr), che per i suoi dipendenti aveva organizzato un programma di yoga, con piani stretching e meditazione. Ha finito per interromperlo dopo pochi mesi, perché solo una minima percentuale di dipendenti partecipava. Manca l'impegno dall'interno del nostro sistema.

«Il cambiamento? Se non lo chiedono i bartender di oggi, come potrebbero comprenderlo quelli di ieri»

In definitiva, qual è l'ostacolo maggiore per il raggiungimento di una maggior consapevolezza sul tema well-being?
Far capire alla vecchia scuola che esistono nuovi modi per lavorare al bar. Tantissimi proprietari di locali vengono da generazioni che lavoravano sedici ore di fila, c'erano i clopening (turni di chiusura alla notte e riapertura al mattino, consecutivi) e quindi pretendono si faccia lo stesso. Se il cambiamento non viene richiesto dai bartender di oggi, però, quelli di ieri non lo comprenderanno mai.

C’è qualcosa di positivo che viene dalla vecchia scuola?
C’era molta più fame, più voglia di “combattere” per affermarsi. I bartender di oggi studiano meno, perché paradossalmente avere tutto il materiale possibile a disposizione, facilmente, li rende pigri. Quando c’era da aspettare mesi per poter avere un libro, magari andarlo addirittura a cercare nelle librerie dell’usato, non si vedeva l’ora di affrontare nuovi argomenti continuamente, aggiornandosi e formandosi senza sosta. Oggi ne vedo molti che si limitano a fare il compitino e cercano visibilità a tutti i costi, come se essere riconosciuti a prescindere fosse più importante del motivo per cui si finisce per essere, appunto, riconosciuti.

Cosa vorresti vedere di più, nel settore del bar?
Collaborazione. È la chiave di tutto, è così che si riesce a creare una industria sana, per scambiare informazioni, generare consapevolezza, ottenere una solida rappresentazione formale di fronte agli enti governativi. Finché si fa la guerra dei poveri, c'è poca strada da fare.

Cosa di meno?
Meno passività di fronte alle cose che non funzionano, su tutti i fronti ma soprattutto sulle dinamiche interne al bar. I commenti fuori luogo (e spesso sessisti) su colleghi e ospiti, il comportamento irresponsabile sul lavoro (bere in servizio), sono tutti elementi che si danno per scontati perché il mondo della notte è per definizione un ambiente propenso agli eccessi, ma non devono essere considerati normali.

Definiresti il settore del bar, le persone che lo compongono, le conversazioni che lo riempiono, come interessanti?
Le persone sono sempre interessanti e lo rimarranno, è talmente vario il background da cui provengono i professionisti del bar. Forse faccio più fatica a trovare delle novità, anche se può essere dovuto all’essere "nel giro" da così tanto tempo.

A proposito: in tutti questi anni, è cambiata la dimensione per le donne nell'industria del bar?
Decisamente. Quando ho iniziato eravamo pochissime, era difficile trovare spazio, la predisposizione mentale era diversissima, soprattutto in Italia. Oggi ci sono molte più bartender e sono felice di vedere enti e realtà che si battono sull'argomento.

«Avere donne in team non è di per sè abbastanza: l'inclusività è metterle nelle condizioni per dare il loro meglio»

Continuano a esserci parecchie difficoltà, però.
I conflitti derivano dall'incomprensione: trovo ancora colleghi che giustificano le poche possibilità date alle donne con "non sono forti abbastanza". E in ogni caso, aprire la porta per l’ingresso delle donne nell’industria non è neanche sufficiente, perché le pari opportunità sono un'altra cosa: avere un team che conti anche donne non è inclusività, finché quelle donne non saranno messe nelle condizioni migliori possibile per dare il loro meglio, come per chiunque altro.

Ci sono differenze tra mondo bar e mondo aziende, sul tema?
Sì: nelle aziende, soprattutto all'estero, è molto più facile: paradossalmente c’è quasi una discriminazione al contrario, perché molti brand implementano progetti specifici che prevedano la presenza di donne, a prescindere dal valore o dall’esperienza.

È giusto?
Non credo lo sia, è importante sia data l'opportunità a tutti, ma poi è il merito a dover fare la differenza. Già a partire dai panel, dai partecipanti alle competizioni o dalle giurie: chi merita va avanti, certo. Il primo vero passo è assicurarci che più donne abbiano la possibilità di accedere alle stesse posizioni, opportunità e luoghi dei colleghi uomini.

Consiglieresti a una donna di iniziare una carriera nel bar?
Ora più che mai è indubbiamente facile per una donna entrare nel settore, perché la nostra presenza è richiesta e se si è svegli e si lavora duro ci sono diverse occasioni per emergere. Spessissimo si trovano bartender del tutto impreparate, eppure portate in palmo di mano da aziende e colleghi per la mancanza di rappresentazione. C’è spazio, insomma. Ma da qui a essere rispettate, ci passa ancora una vita.

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