Barman d’albergo, fuga di talenti dall’Italia

A dispetto delle mode la miscelazione di ricerca passa ancora attraverso gli hotel di lusso. Ma in Italia mancano i giusti riconoscimenti e i giovano guardano all’estero. Eppur qualcosa si muove

A dispetto delle mode la miscelazione di ricerca passa ancora attraverso gli hotel di lusso. Ma in Italia mancano i giusti riconoscimenti e i giovano guardano all’estero. Eppur qualcosa si muove

C’erano una volta i barman d’albergo e ci sono ancora. Sempre lì dietro il loro bancone a dispensare ottimi cocktail e a intrattenere la clientela, narrando storie, aneddoti, consigli e, a volte, dando lezione di stile e di bon ton. In giacca bianca, cravatta nera, sorriso suadente, rappresentano, da Jerry Thomas in poi, la quintessenza dell’ospitalità: un’arte in cui i professionisti italiani, in particolare, sono diventati maestri, tanto che dietro il banco degli alberghi di lusso di mezzo mondo c’è quasi sempre un nostro connazionale. Un lavoro, tuttavia, oscuro. O, sarebbe meglio dire, oscurato dalle mode e dai media che in questi ultimi anni hanno puntato i loro riflettori su altre professioni dell’ospitalità, certo altrettanto importanti, che progressivamente hanno occupato la ribalta. In primis, gli chef ma, per restare nel nostro ambito, potremmo aggiungere i mixologist, categoria che scatena, a corrente alternata, passioni viscerali o profonde antipatie. Se da un lato hanno avuto il merito di dare una scossa positiva a tutto il mondo del bar, iniettando massicce dosi di creatività e sano protagonismo, dall’altro, hanno decisamente spostato l’asse dell’attenzione della bar industry e dei consumatori in spazi alternativi a quello del bar d’albergo. Recentemente a riportare la palla al centro, ci ha pensato un gentleman molto conosciuto tra gli addetti ai lavori: un professionista della comunicazione che è stato l’anima di contest entrati nella storia della miscelazione moderna come Lady Drink. Parliamo di Danilo Bellucci, che, tre anni fa, si è inventato 110 & Lode, contest riservato ai professionisti del bere miscelato che lavorano nei grandi alberghi, dalle 5 stelle in su.

Savoir faire e cervello

Un progetto quasi nato in sordina che ha però ha suscitato immediatamente l’interesse degli addetti ai lavori perché andava esattamente a riempire una casella rimasta inspiegabilmente vuota. Non solo. L’instancabile Bellucci ha dato vita anche a uno speciale “albo d’oro” battezzato Order of Merit, creato sul modello di un’onoreficenza istituita nel 1902 da Edoardo VII, sovrano del Regno Unito come riconoscimento ai suoi sudditi per meriti speciali in diversi campi. In pratica, un premio alla carriera per i barman italiani che si sono distinti all’estero per attenzione, precisione, eleganza, savoir faire, ma anche intelligenza, cultura, duttilità, pazienza e classe. Tra i testimoni della nostra inchiesta ci sono proprio diversi “premiati” con l’Order of Merit all’ultima edizione di 110 & Lode, tenutasi lo scorso ottobre all’Excelsior Palace Hotel di Rapallo (Ge), insieme ai rappresentati delle principali organizzazioni professionali nazionali e internazionali di barman (presenti al contest in veste di giudici), formatori e concorrenti della competition come il vincitore della sfida Andrea Francardi, bar manager del Fonteverde Spa Resort di San Casciano dei Bagni (Si). Al di là delle diverse posizioni emerse, si possono individuare dei tratti comuni. Il primo è il ritorno del bar d’albergo a centro di attrazione permanente della galassia dell’ospitalità: nei cinque stelle, ma anche sempre di più nei quattro stelle, il bar ha riconquistato una dignità pari almeno a quella del ristorante. Anche in Italia si sta iniziando a capire che il bar può essere un vero e proprio motore di business tanto che le catene o le società di gestione sono oggi alla ricerca di professionisti con provata esperienza, capaci di far funzionare e mettere a reddito una “macchina” molto delicata e complessa.

Lusso e hotel industry

Una “macchina” dove l’asticella della qualità è destinata a salire nei prossimi anni. Non è un mistero che l’hotellerie di fascia alta abbia oggi un ruolo di locomotiva dell’offerta ricettiva tricolore. Un’offerta che ha visto a livello quantitativo un calo del numero di strutture di fascia bassa, a vantaggio di un aumento del numero di alberghi di categoria media, che costituiscono oggi la quota maggiore, e di quelli di categoria lusso, dove si è rilevata la crescita più significativa. Ed è proprio in quest’ultima fascia che si sono concentrati i maggiori investimenti da parte dei big spender della hotel industry. Secondo Scenari Immobiliari, l’anno scorso il mercato real estate alberghiero italiano, che include sia le compravendite, sia il valore degli immobili sottostanti ai nuovi contratti di locazione, avrebbe infatti raggiunto quota 2,75 miliardi di euro, crescendo del 14,6% rispetto al 2016: un ritmo superiore alle previsioni e che dovrebbe proseguire anche quest’anno. Tra l’altro, per la cronaca, il 2017 ha registrato, anche un aumento dei pernottamenti  pari al 5,9% nelle strutture ricettive ufficiali.  E si tratta di una crescita più marcata rispetto alla media (+ 5,1% secondo Eurostat) degli altri Paesi dell’Unione Europea. Uno scenario, dunque, che dovrebbe in teoria favorire l’affermarsi di professionalità di alto livello. Ma, come rivelano i nostri testimoni, le criticità sono molteplici e di non fscile soluzione. Almeno a breve termine. A  partire dai livelli di retribuzione spesso non adeguati all’expertise richiesto. Capita che una catena richieda al candidato di turno un lungo elenco di “skills”, dalla conoscenza di più lingue alla capacità di gestire staff ed emergenze, offrendo stipendi che superano di poco i 1.000 euro netti.   

Retribuzioni non adeguate

In Italia c’è la tassazione sul lavoro più alta d’Europa e questo certamente può restringere il raggio d’azione di un’impresa ma, in ogni caso, competenze e responsabilità vanno retribuite in modo adeguato come accade, o dovrebbe accadere,  in tutti i settori. Oltre alla “pressione fiscale”, i nostri devono spesso fare i conti anche con la “pressione sul lavoro” esercitata da responsabili più simili a ragionieri che a veri direttori d’albergo e che, in genere, guardano più al conto economico che alla soddisfazione del cliente.  Infine se la soddisfazione a livello retributivo è magra, non va meglio con la carriera. Talvolta le posizioni migliori sono occupate da professionisti di lungo corso e per i più giovani il cammino diventa subito tutto in salita. Risultato: molti decidono di emigrare e lavorare in altri Paesi.

Classifiche e talenti

A proposito di estero, dovrebbero far riflettere due dati. Primo, che ai primi 5 posti tra i 50 World’s Best Bar del 2018, ci sono solo bar d’albergo: il Dandelyan del Mondrian Hotel di Londra, The American Bar del Savoy di Londra, il Manhattan del Regent di Singapore, il Nomad del Nomad Hotel di New York e il Connaught Bar dell’omonimo hotel londinese. Secondo, che il personale di moltissimi dei top bar citati sono luoghi dove la “lingua di lavoro” è l’italiano. Qui operano alcuni dei nostri miglior professionisti, da Agostino Perrone a Pietro Collina, che sono diventati “icone” del bartending mondiale. Detto questo, l’iniziativa di 110&Lode risulta ancora più attuale: quasi una ricompensa nei confronti di una categoria apprezzata,  in fondo, più all’estero che a casa nostra.

Nella foto, il banco dell'American Bar del Savoy di Londra

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