Il whisky giapponese si dà finalmente una regola

Scopri i criteri che un malto deve soddisfare per potersi definire un autentico "whisky giapponese". Li ha definiti la Japan Spirits & Liqueurs Makers Association, l'associazione nazionale dei produttori di liquori e distillati

Non è un segreto che i whisky giapponesi, distillati che contano su una tradizione ormai secolare (la prima distilleria risale al 1923), siano i più ricercati al mondo. Tanto che i single malt invecchiati con definizione d’età sono praticamente introvabili e vantano quotazioni stellari. Single malt a parte, categoria che rappresenta una nicchia di mercato, il Giappone ha fatto fronte, anche negli anni passati, alla richiesta crescente di bottiglie, ricorrendo a malti esteri. E, a differenza della Scozia, dove "allungare" i malti autoctoni con distillati provenienti fuori dai confini del territorio locale comporta la perdita della denominazione "scotch whisky", nel Sol Levante chiunque ha sempre potuto miscelare e imbottigliare malti realizzati con distillati importati da altri Paesi e venderli come whisky giapponesi. A porre rimedio a questa situazione che rischiava di ledere l’immagine e l'alta reputazione di cui gode il settore, ci ha pensato l'associazione nazionale dei produttori di liquori e distillati, la Japan Spirits & Liqueurs Makers Association che ha stilato, dopo anni di consultazioni, una serie di criteri che un malto deve soddisfare per potersi definire un autentico "whisky giapponese". Ecco i più importanti (sul sito dell'organizzazione è possibile trovare il documento completo in inglese):

- i processi di saccarizzazione, fermentazione e distillazione devono avvenire in una distilleria in Giappone;
- l'acqua utilizzata deve provenire da una fonte ubicata in Giappone;
- la materia prima deve essere un cereale maltato (es. orzo, segale, grano). Non sono ammessi cereali non maltati;
- il whisky deve essere invecchiato per almeno 3 anni e il processo d'invecchiamento deve avvenire in Giappone;
- il whisky deve essere imbottigliato in Giappone e deve avere un grado alcolico di almeno 40%. 

Le nuove regole stabiliscono che anche se solo uno dei suddetti criteri non dovesse essere rispettato, le aziende produttrici non potranno utilizzare diciture come “Japanese whisky” o "Japanese Whiskey", né in alcun modo instillare nell’acquirente l’idea di un prodotto giapponese: sono, quindi, vietati nomi propri, nomi famosi, nomi di città e luoghi, bandiere e qualsiasi elemento che possa far presumere di aver rispettato i criteri di produzione. Il nuovo disciplinare entrerà in vigore il prossimo 1° aprile, che coincide in Giappone con l’inizio del nuovo anno fiscale (i produttori avranno peró tempo fino al 31 marzo del 2024 per adeguarsi alle nuove norme). «È un'ottima notizia - afferma Pino Perrone, uno dei massimi esperti di whisky in Italia, colonna portante del Roma Whisky Festival e co-fondatore di Whisky&Co. e di Oro Whisky Bar - perché fa chiarezza su un mondo che ha vissuto negli ultimi vent'anni, a partire dal 2001 quando il Nikka Yoichi Single Malt invecchiato 10 anni vinse a sorpresa il premio "Best of the Best" ai Whisky Magazine's Awards, un boom straordinario sia a livello economico, sia a livello di marketing e d'immagine. Negli anni, i whisky del Sol Levante hanno vinto montagne di premi, conquistando larghi consensi fra esperti e consumatori finali tanto che oggi sono diventati anche un bene d'investimento. Un boom, dicevamo, generato da una domanda globale che si è concentrata su un Paese dove, fino a qualche anno fa, c'erano in attività solo 8 distillerie ed era quindi palese che molti prodotti in commercio non contenessero whisky giapponese. D’altronde è risaputo che i grandi gruppi nipponici hanno cominciato, sin dagli anni Ottanta, a fare shopping di distillerie in Scozia (es. la Ben Nevis rilevata da Nikka, la Tomatin rilevata dalla Takara Shuzo, la Bowmore da Suntory ecc.) e che le importazioni di malti da Stati Uniti, Scozia, Canada ecc. siano da anni in continuo aumento. Non dimentichiamoci, poi, che le leggi giapponesi sono sempre state molto lasche in materia, dando praticamente mano libera ai brand giapponesi di importare alcolici dall'estero e di utilizzare malti autoctoni in proporzioni minoritarie all'interno di bottiglie etichettate come "whisky giapponese". C'era dunque il bisogno di correre ai ripari e di ridare trasparenza a una situazione che rischiava di sfuggire di mano». Una trasparenza, aggiungiamo noi, che dovrebbe riguardare, ovviamente, tutto il mondo dei distillati, non solo giapponesi. «Riguardo al disciplinare - aggiunge Perrone - i produttori giapponesi si sono assolutamente ispirati al modello scozzese. Anzi, direi che hanno ricalcato molti dei criteri contenuti nel disciplinare dello "scotch whisky". Ad esempio, dalla capienza della botte, che deve essere di 700 litri, al principio determinante che il prodotto deve essere interamente distillato e imbottigliato all'interno del Paese».

Un accordo volontario e non vincolante per ogni prodotto

«Si tratta di una svolta importante ed è forse il primo step per una regolamentazione ancora più rigorosa della produzione - concorda Alessandro Coggi, esperto di whisky giapponese, appassionato del Sol Levante e collaboratore di Whisky Club Italia -. Teniamo, però, conto che non si tratta di una legge, ma di un regolamento associativo al quale quasi tutti, ma non tutti, i produttori giapponesi hanno dichiarato di sottoporsi volontariamente. E alcuni big, come Nikka, hanno comunque dichiarato che non tutte le proposte del loro portafoglio saranno oggetto del regolamento. Ad esempio, il celebre Nikka from the Barrel avrà in etichetta una dicitura che specificherà come il prodotto non sia in linea con il disciplinare. Gli effetti sul mercato? È probabile che ci sarà un innalzamento dei prezzi, già molto elevati, che riguarderà ovviamente i whisky che rispettano in toto il disciplinare. È vero che i grandi gruppi hanno aumentato negli anni scorsi la produzione e che delle nuove distillerie hanno approcciato il mercato, ma parallelamente la domanda mondiale è cresciuta a livello esponenziale. Quello che più preoccupa è la forbice oggi esistente tra il prezzo di vendita di un whisky sul mercato interno e il prezzo dello stesso prodotto quando raggiunge i mercati esteri di destinazione: un prezzo che può essere anche 5 o 6 volte superiore a quello di partenza». Una forbice non si sa fino a quando sostenibile dalla domanda. «I single malt invecchiati potrebbero forse aumentare ancora di prezzo - aggiunge Perrone - mentre i whisky che non rispetteranno i criteri potrebbero subire dal mercato una sorta di declassamento. Ma potrebbe anche succedere che molte distillerie di soshu, che in Giappone sono migliaia, decidano di convertirsi in distillerie di whisky, andando di fatto a coprire il gap di offerta. Concludendo, dal momento che il consumatore è oggi obbligato a pagare un prezzo molto elevato per qualsiasi whisky proveniente dal Sol Levante, è giusto che conosca la verità e che quando legge "whisky giapponese" abbia la garanzia che si tratti di un prodotto distillato interamente in Giappone e invecchiato per almeno 3 anni».

 

 

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