Un focus su dove bisogna concentrare le energie per fare bene e meglio: ecco che cosa abbiamo imparato mescolandoci al pubblico di Barmaster Hub in Campari Academy. E un azzardo sulla mixology di domani
Abbiamo capito un po’ di cose su cosa devono fare i bar e i bartender per fare la differenza, per avere successo e far funzionare i loro locali. Non solo su questo, in realtà. Abbiamo anche colto qualche indicazione su dove va il mercato, dalle parole di gente intelligente che ha detto cose interessanti. Ci pareva il caso di spiegarlo, perché non è proprio un bottino di tutti i giorni.
Campari Academy ha piazzato su un palco un po’ di nomi top del nostro mondo, per la prima edizione di un evento di formazione che ha mescolato masterclass e workshop pratici. Si chiama Barmaster Hub e noi, in platea, mescolati a più di 200 giovani professionisti arrivati da mezza Italia, abbiamo assistito all’evento. Senza la pretesa di dettare le regole del gioco, o di svelare chissà quali segreti, ma solo con il piglio secchioncello da cronisti, ci sembra proprio il caso di mettere in fila, qui, un po’ di cose importanti che abbiamo capito ascoltando gente del calibro di Leo Leuci, Edo Nono, Dom Carella, Monica Berg. Lezioni di successo per il bar, un filo rosso che ha legato tutti gli interventi e, a ben guardare, disegna una mappa con indicazioni precise. Un focus su dove bisogna concentrare le energieper fare bene e meglio. E anche un’indicazione di tendenza, di dove vanno la mixology e il bar inteso più in generale.
Il copyright è di Leonardo Leuci, la sintesi è preziosa e perfetta, perché l’idea che la dimensione di socialità debba essere al centro della proposta di un locale è risultata trasversale a tutti gli interventi dei big sul palco. Cosa significa? Prima di tutto, che al bar si va per cercare (e trovare) un’esperienza umana, un qualcosa che ha a che fare con le emozioni. A dare quelle emozioni sono i gesti, la semplicità, l’autenticità del servizio. Cose che possono rendere un drink da battaglia il migliore mai bevuto, perché atmosfera autentica, gestualità e personalizzazione sublimano l’esperienza. Occhio a questa parola: personalizzazione. È un investimento, una scelta di un pezzo dell’offerta trasformato in pezzo di identità, che finisce col rappresentare il locale. Non deriva da una creatività fine a se stessa, e men che meno da onanismo da drink list: il colpo di genio è spessissimo in una operazione di semplificazione della ricetta, accompagnato da una idea distintiva di servizio. Un twist “a sottrarre” ha fatto la fortuna del Tommy’s Margarita, il carrello fa leggendari i Martini del The Connaught. Ecco, in giro c’è poca poesia, tocca intervenire.
2. I soldi fanno la felicità
Servono per fare le cose per bene, ma soprattutto fanno felici chi incassa – quando sono frutto di onesto e sudato lavoro profumano di gioia – e chi gli sta intorno. Lo sospettavamo già, ma a fare notizia è la serenità con cui il tema è saltato fuori. Forse la prima occasione, a memoria di cronisti, in cui sentiamo parlare così serenamente e onestamente di soldi. Soldi che entrano ed escono dalla cassa, da tenere sotto controllo costante, perché il bar è un’impresa oltre che un bel sogno realizzato, e come tale deve stare in piedi. Soldi che finiscono nelle tasche del titolare, ossia di chi rischia, e rieccoci alla gioia derivante dal sudore ripagato di cui sopra. Soldi che, come ha ricordato Monica Berg, devono trovare anche la via verso le tasche dei ragazzi del team. «Wanna make money? Make sure everyone around you makes money» (vuoi fare soldi? assicurati che tutti intorno a te li facciano). E assicurati anche di avere attorno «amazing individuals». Soldi e persone meravigliose ci portano immediatamente al punto 3.
3. Per fare meglio sul fronte ospitalità, pensate a un regalo
Veloce lezione di teoria economica solo apparentemente noiosa. A cosa servono i soldi (intesi come moneta sonante, quella che paga beni e servizi)? Servono a risolvere una relazione. A sciogliere una situazione di debito esistenziale, perché se non paghi qualcuno che ti ha consegnato un bene sei in un meccanismo che ti lega a lui. Perché se non paghi, era un dono. E il dono fa l’esatto opposto dei soldi: crea una relazione.
Ok, ora via dalla cattedra e torniamo al bancone del bar. Dove conta, più di ogni altra cosa, l’accoglienza. Perché non siamo in un laboratorio, ma in un pubblico esercizio, in un teatro di socialità (vedi punto 1). Edoardo Nono forse ha voluto alzare un po’ il tiro aprendo il tema ospitalità con la definizione di xenia, cercando un’ispirazione colta e altissima. Xenia può indicare generalmente l’accoglienza dello straniero, l’ospitalità stessa, ma di base è l'antica denominazione dei doni che venivano messi a disposizione dell'ospite dal signore della casa. Erano alimenti e bevande, ovviamente. Che fai, ti entra in casa uno ed è sfinito dal viaggio, non gli dai da bere e da mangiare, come minimo? Certo che sì. Ecco, quel “dovere di ospitalità”, senza chiedere nulla in cambio, è un dono, un gesto che apre la relazione tra chi accoglie e chi arriva. Pensiamo a questo quando progettiamo il nostro stile di ospitalità nel locale e quando selezioniamo le persone che ne devono essere ambasciatori. Perché tutto funzioni devono essere dotate di empatia, una dote preziosissima. Serve a capire cosa c’è nella testa e nel cuore dell’ospite, a far proprie le sue emozioni (con moderazione, eh…) e a dargli quello che cerca. Magari è contatto umano, magari è bere bene, magari è ”a caccia”, magari vuole un nido con buona musica. Doniamogli un contatto e sarà nostro per sempre. E ricordiamoci: raramente cerca il nostro ego. Anzi, mai.
4. C’è un sito che ti fa i pairing. E non basta
Scegli un ingrediente. Scopri come "meccia" con altri (e stupisciti). Crea la tua combo culinaria. Servila. Sono i passaggi di un processo di costruzione di un food pairing, presi dal sito foodpairing.com. Strumento infinitamente utile per i professionisti che vogliono fare degli abbinamenti un pezzo importante del loro business. Però non basta. Non basta perché questa disciplina di creatività è materia tanto affascinante quanto complessa. E non stiamo parlando della complessità del comportamento delle papille gustative collocate sulla nostra lingua. O delle infinite potenzialità del nostro naso, capace di intercettare 10mila diversi profumi. O, ancora, del centralissimo ruolo degli occhi, capaci di influenzare il nostro cervello nel giudizio su cibo e bevande molto più di quanto pensiamo comunemente. Complesso non è solo il percorso scolastico di lavoro per ideare un buon food pairing, ottimamente riassunto dal master Dom Carella (studia le molecole, sperimenta con texture e temperature, annota le reazioni, assaggia verticalmente, gioca con territorio e stagioni e colori). No. Ancora una volta, è una questione di business del bar. Puoi inventarti tutto quello che vuoi e sarà super, ma se il team non è allenato a fare cross selling (vendere un prodotto correlato a quello richiesto) o upselling (vendere un prodotto a maggior valore aggiunto), o peggio ancora non è avvezzo a guidare il cliente nella scelta, di quelle combinazioni pregevolissime cocktail-piatto non ne venderai nemmeno una. #sappilo.
5. Bonus track: l’era dei drink chiarificati e super puliti sta finendo?
Azzardo finale. Quando tanti professionisti sono riuniti sotto lo stesso tetto e parlottano e bisbigliano, qualcosa di quei sussurri si coglie. Magari la si mette a sistema con i segnali che provengono dagli speech dei big. Tipo: che pizza i cocktail tutti uguali e seriosi (chiarificati, puliti, con ghiaccio perfetto) degli ultimi anni, evviva il continuo richiamo all’allegria al bar, ben venga la riscoperta di una professionalità meno quadrata e più sorridente e la necessità di avere più show, ma genuino, emozionale, non cafone, comunque show. Colorato. Qualcuno azzarda un tramonto della mixology elegante-limpida-pulita in favore di una fase un po’ più barocca e divertente? Evviva.