Liberalizzare con senno per aiutare i consumi

Licenze –

Abbandonare i limiti numerici e pianificare l’insediamento di nuovi bar in base a criteri che tengano conto della reddittività della zona, dei servizi, del traffico. Per uscire dalla crisi

Liberalizzare con giudizio, programmare l’apertura di bar e ristoranti tenendo conto del contesto urbano e delle vocazioni del territorio. La soluzione per riattivare i consumi nei pubblici esercizi in questi anni di crisi è sicuramente legata a un’efficace pianificazione territoriale. A due anni dal Decreto Bersani, ci troviamo di fronte un’Italia ancora piena di contraddizioni: sette regioni del centro-sud sono ancora ferme ai limiti numerici della legge 287 del ’91. È mai possibile che distanze e superfici minime tra bar, ristoranti e pizzerie regolino ancora il territorio e il regime di concorrenza? Tra liberalizzare “tout-court” e rifiutare l’ingresso di nuovi concorrenti, c’è una terza via virtuosa: la programmazione dei pubblici esercizi da parte delle istituzioni locali, Regioni e Comuni, può favorire la qualità dell’offerta e gli interessi del consumatore. Nessuna norma esclude d’introdurre criteri basati su problematiche di natura urbanistica, viabilistica, parcheggi, ordine pubblico, sicurezza e decoro cittadino. Se una regione applica un’intelligente programmazione, il settore può crescere in modo ordinato e non essere soffocato da regole paralizzanti. Una direzione auspicabile.
La concorrenza extra canale

Dati alla mano, dal 2001 al 2007 in Italia hanno chiuso 30mila ristoranti e 60mila bar e, nello stesso periodo, si è accentuato il dato della produttività decrescente (-8/10%). La densità attuale è di 2,7 bar-caffetterie e 1,9 ristoranti ogni mille abitanti, con circa 20 bar e 13 ristoranti per ciascun Comune di settemila abitanti. Ciò fa si che in Italia ci siano più bar rispetto a quelli censiti in Francia e in Germania.
L’offerta eccessiva, aggiunta all’effetto della crisi economica, porta a un’accelerazione del turn over: «La programmazione territoriale va bene, ma non dimentichiamo il rischio dietro l’angolo della concorrenza sleale - mette in guardia Edi Sommariva, direttore generale della Fipe -. In Italia è come se ci fossero due mercati, 250mila pubblici esercizi e altre 110mila aziende che somministrano con regole diverse. Il settore ha bisogno di concorrenza leale e di precisi criteri di programmazione che s’ispirino ai principi di sostenibilità economica, sociale e ambientale».

Una pianificazione sostenibile

Da Milano arriva un segnale importante. Accogliendo il ricorso del Comune e della Regione, il Consiglio di Stato ha sospeso con l’ordinanza 1641 la sentenza del Tar che accoglieva le ragioni di un imprenditore cui era stato negato il permesso di aprire liberamente un’attività di pubblico esercizio: «La nostra speranza è che il Consiglio di Stato confermi il diritto-dovere per le amministrazioni comunali di programmare l’insediamento delle attività - commenta il presidente della Fipe, Lino Stoppani -. Il pubblico amministratore non può essere espropriato di questa funzione».
Il punto di partenza è questo: il pubblico esercizio è un’attività complessa, ha una valenza sociale e aggregativa, ludica, ricreativa e a volte può entrare in conflitto con il territorio circostante. Bisogna quindi trovare meccanismi di regolamentazione Comune per Comune, intervenendo sulla pianificazione urbanistica. «Così a Milano i pubblici esercizi sono stati inseriti all’interno dei distretti urbani del commercio, cioè sono considerati, dal punto di vista urbanistico, in stretta sinergia con i negozi al dettaglio, perché insieme è più facile capire la massa critica che esercitano e programmarne lo sviluppo e le politiche attive - spiega Luca Tamini, docente di progettazione urbanistica di strutture commerciali al Politecnico - Gli strumenti di governo locale definiscono poi il piano delle regole insediative, la leva degli orari, la gestione del mix urbano, il traffico, l’arredo ecc».

Imporre standard di qualità

D’accordo con le associazioni di categoria, si può programmare l’impatto di bar e ristoranti garantendo servizi di qualità, un corretto rapporto con l’ambiente e il quartiere, la trasparenza dei prezzi e l’erogazione di servizi (vendita di biglietti per i trasporti pubblici, tagliandi per la sosta, distribuzione d’informazioni turistiche ecc.). Il comune di Saronno, per esempio, ha approvato una delibera con criteri che includono il disciplinare di qualità. Più che di obblighi rigidi, bisogna parlare di standard qualitativi funzionali a obiettivi specifici.
Il comune di Celle Ligure per esigenze turistiche ha addirittura fissato la conoscenza delle lingue come requisito obbligatorio.
La programmazione può riguardare anche criteri per l’utilizzo di spazi pubblici (tavolini all’aperto, dehors), autorizzazioni concesse in funzione dei problemi del traffico, dell’arredo urbano, della vitalizzazione del quartiere, scegliendo le aree in cui incentivarle (magari con requisiti di uniformità d’immagine, di orari ecc.) e quelle in cui scoraggiarle. «I pubblici esercizi sono simili ai negozi ma hanno esigenze particolari di parcheggio, di convivenza con la residenza circostante, diverse capacità d’attrazione e momenti di punta», spiega Renato Cavalli, membro dell’Osservatorio regionale del commercio dell’Anci e amministratore di Prassicoop, società di consulenza di pianificazione commerciale.

Le opportunità in vista

Sarebbe quindi opportuno che i Piani di Governo del Territorio e gli altri strumenti urbanistici individuassero le aree di ammissibilità. Bar, pizzerie e ristoranti svolgono un ruolo fondamentale contro la desertificazione dei centri cittadini. Hanno l’interesse a collocarsi nelle parti più vitali delle città, ma sono spesso visti come un fastidio e una minaccia più che come una risorsa. Servono quindi accordi e collaborazioni e non divieti nelle aree a maggiore densità, che sono poi quelle che consentono un’adeguata redditività. I locali devono darsi norme d’autocontrollo e garantire la pulizia, la quiete e la sicurezza pubblica, per esempio, con l’impiego di steward che dissuadano comportamenti impropri dei clienti fuori dai locali.
Ciò richiede forme associative tra gli esercenti in aree non troppo estese perché non siano economicamente insostenibili, magari in concerto con le iniziative comunali, precorrendo il recepimento da parte degli Stati membri dell’Unione europea della cosidetta Direttiva Bolkenstein, previsto ormai per il 2010, che liberalizza la concorrenza commerciale per l’erogazione delle attività di servizio.

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