Il nostro viaggio (in esclusiva) alle origini del sake

La parte più difficile del viaggio è stata decifrare gli ideogrammi sulle etichette. E lo è tuttora. In seconda battuta abbiamo accettato che il sake è meglio berlo fresco. Il sake riscaldato, o atsukan, lo si beve generalmente quando il clima è rigido o per mascherare sapori di bassa qualità. Terzo, abbiamo fatto luce sui cerchi concentrici sul fondo del bicchiere toji-choko: servono a prendere la mira sulle eventuali impurità del prodotto. Con Gian “Bon Jovi” Libardi, vincitore di “Sake Maestro”, cocktail competition organizzata dall’associazione culturale La Via del Sake in collaborazione con Bargiornale, abbiamo percorso il Giappone da nord a sud a bordo di ogni mezzo di trasporto: auto con le casse grosse, bus coi sedili piccoli, taxi con la tendina e i pizzi sui sedili, metro fatte per contenere 35 milioni di persone (magari non tutte in una volta), risciò per turisti e shinkanzen, i razzi-missile nei miti panni di treni rapidi. Il tutto in un viaggio alla scoperta di alcune tra le più interessanti realtà della prefettura di Iwate, la terra dell’oro narrata da Marco Polo nel settentrione, fino alla sede del colosso Gekkeikan nell’antica capitale Kyoto.

Il riso che non si mangia

Un viaggio di studio e ricerca attraverso le acque cristalline che sgorgano dal monte Iwate alle coltivazioni di varie tipologie di riso, diverse da quelle per l’uso in cucina. Varietà dai nomi alieni per la nostra cultura - yamada nishiki o gohyakumangoku - che costituiscono un patrimonio per la produzione di sake di qualità. Una produzione che inizia in primavera con la preparazione dei terreni, prosegue in estate con la fioritura e la nascita del chicco, continua da agosto a ottobre con la raccolta del riso e termina in inverno con la produzione del sake, che non è né un distillato, né un vino, né un birra, ma una bevanda fermentata, che va dai 12° ai 16° vol., ricavata dall’unione di tre elementi: acqua, koji (malto di riso) e riso. Fino dall’antichità il sake - si scrive senz’accento, si pronuncia con l’accento - ha fatto parte integrante dei riti sacri e delle cerimonie di palazzo, diventando la bevanda più diffusa e amata tra i nobili, la classe dei samurai e la gente comune. Oggi, in tutto il Giappone, ci sono molte realtà produttrici dette kuramoto che producono il cosiddetto jiazake, o sake locale, con profili aromatici diversi da regione a regione. Parliamo di circa 1.700 produzioni locali in tutto il Paese. Assaggiando le singole specialità si scoprono sake buoni per tutti i gusti: da quelli con note che ricordano la fragranza della frutta ai sake dal gusto più secco e pulito. Di recente l’appeal del sake ha varcato i confini del Giappone per spingersi in tutto il mondo. Con la diffusione massiccia in tutto il mondo di ristoranti giapponesi - in questo numero vi parliamo del nuovo e specializzato Sakeya di Milano - abbiamo assistito a una diffusione di tipologie di prodotti di qualità fino a pochi anni fa introvabili: junmai, ginjo, junmai-ginjo, daiginjo, junmai-daiginjo. Fatte salve le dovute eccezioni, la regola generale è che più viene levigato il chicco di riso prima della produzione, migliore sarà la qualità del sake. Più si arriva al cuore del chicco, ricca di componente amidacea chiamata shimpaku, maggiore sarà la qualità, complessità, fragranza e, di riflesso, anche il prezzo. Le tipologie di riso, come accennavamo sopra, sono diverse da quelle usate per il consumo a tavola.

Nella terra dei nanbu-toji

E questa è una delle tante lezioni apprese dai Nanbu-toji, la più grande associazione di maestri del sake del Giappone, che ha come centro la prefettura di Iwate. Assieme agli Echigo-toji (della prefettura di Niigata nel nord ovest) e ai Tamba-toji (prefettura di Hyogo, nel centro sud) rappresentano i tre pilastri della produzione del sake. Sono i maestri che tramandano le tecniche di produzione del sake più ricercato. Per nulla preoccupati di applicare le innovazioni tecnologiche e scientifiche per migliorare la qualità dei loro prodotti, sono allo stesso tempo consapevoli di quanto sia importante custodire le tradizioni secolari. Un’espressione usata spesso è keiken to kan - l’esperienza e l’intuizione - per descrivere l’arte della produzione artigianale. Il toji e la sua kurabito (la sua squadra fare bene) sono artisti che si affidano tanto al loro intuito quanto alla strumentazione scientifica. Le aziende che abbiamo visitato hanno caratteristiche diverse ma, tecnologia o meno, conservano intatto lo spirito originario. La Washinoo Brewery, sorta alle pendici del monte Iwate nel 1829, è una buona miscela di competenze tecnologiche e artigianalità. Come simbolo porta l’aquila - monte Ganju (grande aquila) è un altro nome con cui è conosciuto il monte Iwate - e produce i suoi sake, pastorizzati e non, con l’acqua incontaminata e ricca di minerali del luogo. Per la produzione si avvale di alcune varietà di riso tipiche dell’area dei Nanbu-toji come il ginginga, pensato per la produzione del sake ginjoshu o honjozo, che dà un sake morbido e dal sapore ricco e fresco. La varietà ginotome è pensata per la produzione degli eleganti sake jummaishu e dell’honjozo. Infine c’è il yuinoka, il riso più prestigioso di Iwate, orgoglio della regione e nato dopo 10 anni di ricerche che è impiegato, dalla Washinoo Brewery per il raffinato Yuinoka Junmai-Daiginjo.

Accoppiate vincenti

Ci sono anche produzioni nelle quali sono impiegati mix di varietà di riso diverse. È una pratica diffusa sia nelle aziende di piccolo-medie dimensioni sia in colossi come la Asabiraki Co., medaglia d’oro 2016 ai Japan Sake Awards per il suo Asabiraki, e azienda che nella sua storia recente ha avuto una dozzina di pluripremiati maestri del sake. Asabiraki è stata fondata da Genzo Murai, un samurai del clan di Nanbu, nel 1871 (era Meiji). Ora siamo alla sesta generazione di samurai che producono 1,2 milioni di bottiglie ed esportano il 5% della loro produzione verso Stati Uniti, Cina, Corea. Un’azienda solida che ha investito in modo massiccio nell’impiego di tecnologie all’avanguardia e nell’automazione dei processi produttivi. Il sake maestro di casa Asabiraki ci ha raccontato che la gran parte dei consumi sono costituiti da prodotti giovani, freschi, fruttati, spesso utilizzati per accompagnare ostriche, ostriche fritte, tofu, sashimi e pesce bianco.

Il gelato dagli scarti

Del sake non si butta via niente. È l’altra importante lezione che ci hanno insegnato i maestri del sake e, nello specifico, una maestra: Hiroko Yokosawa, l’unica donna “toji”, contitolare della Tsukinowa, tra le più piccole e blasonate realtà produttrici, situata nella fertile valle del fiume Kitakami nella zona montuosa di Tohoku. Yokosawa ha aperto a pochi metri dalla sua brewery il Wakasaya Ice Cream Garden, gelateria che propone specialità a base di sake-kasu, la feccia che rimane dalla spremitura del moromi (sake grezzo). Nella sua gelateria prepara gelati al sake ai gusti di tè verde, agrumi e altri frutti locali. Un lavoro attento e meticoloso in linea con quello che succede nella sua azienda che ha in portafoglio prodotti come Yoi no Tsuki Daiginjo, Luna di Mezzanotte, un tipico sake stile Nanbu: aromatico, morbido con note di lampone, melone, fiori. Il nostro cammino tra le brewery di Iwate si è concluso in bellezza alla Nanbu Bijin Brewery, fondata nel 1902. Nanbu alla lettera significa “del sud”, ma in questo caso fa riferimento al nome originario della regione. Quanto a “Bijin” significa “bella donna” e fa rima con la missione dell’azienda: produrre sake bello e buono. Ultima tappa del nostro viaggio in Giappone, dopo quattro ore e mezzo di viaggio a bordo dello shinkansen, è stata Kyoto, l’antica capitale e l’attuale capitale culturale del Giappone, con i tetti a pagoda, il tempio d’oro, le signore abbigliate con gli splendidi kimono tradizionali e le colline circostanti dalle quali sgorga acqua cristallina. Ed è qui che ha sede Gekkeikan, la grande madre del sake fondata nel 1637, che ospita il più interessante e completo museo dedicato al sake, alla sua storia e alla sua produzione. Un posto che da solo varrebbe l’intero viaggio nel Sol Levante.

1 commento

  1. Bell’articolo, esaustivo nonostante la necessità di sintetizzare un argomento così vasto in così poche parole.
    Mi permetto di segnalare due inesattezze: il koji è un fungo/muffa, l’Aspergillus oryzae, senza il quale non è possibile far partire le fermentazioni del riso per la preparazione del sake (https://www.ilsake.it/gli-ingredienti-del-sake-non-solo-riso-e-acqua/#Il_koji_e_il_suo_effetto_sul_riso).
    Per quanto riguarda le realtà produttrici, invece, il termine corretto sarebbe sakagura, invece che kuramoto, più generico.
    Saluti.

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