A sentirlo parlare si capisce perché è diventato una sorta di guru per la comunità della mixability e perché ai suoi seminari, tenuti in più di 124 città del mondo, abbiano partecipato finora oltre 86.000 baristi «molti dei quali rimasti fino alla fine», come aggiunge scherzosamente. Philip Duff è uno speaker coinvolgente e divertente, capace in poche e rapide battute di venire subito al dunque. Tra i maggiori esperti del mondo degli spirit e della mixology, ha una visione globale del mondo bar. A Milano è stato protagonista della sessione conclusiva di Baritalia Hub, con un intervento sui global trend della mixology. Lo abbiamo raggiunto su Skype nella sua casa di New York, approfondendo alcuni temi toccati dalla sua relazione.
Philip Duff, quali sono i più principali trend in atto nel mondo della mixability?
Uno dei più importanti è il successo dei mix a bassa gradazione alcolica o del tutto privi di alcol. Una nuova frontiera che allarga la platea della mixability a quei consumatori poco attratti da drink troppo alcolici. Inoltre, queste miscele assicurano un maggior ricavo al gestore, perché sono meno costose da preparare e i clienti ne bevono di più. In parte collegato a questo fenomeno è la diffusione di cocktail realizzati con spirit quali bitter e vermouth, invece di distillati come gin e whiskey, che risponde anche alla volontà di proporre nuovi sapori. E proprio sul fronte dei sapori un altro trend del momento sono i cocktail dal gusto amaro. Questo non rappresenta certo una novità per l’Italia, in quanto il gusto amaro da sempre caratterizza i vostri aperitivi, ma per il resto del mondo si tratta di una vera scoperta. Basta pensare al successo del Negroni, drink ora di grande tendenza in tutto il mondo.
Una buona notizia per i produttori italiani...
L’Italia ha una tradizione di prodotti classici, come liquori, amari e bitter, di altissima qualità. Sapori forti, decisi, speziati, che possono essere impiegati con successo anche nella miscelazione, oltre che apprezzati lisci. Si tratta di proporli e farli conoscere nel resto del mondo, dove possono riscuotere un grande successo.
Quali sono le caratteristiche che fanno di un buon bar un’eccellenza?
Il presupposto è avere un’idea ben chiara di ciò che si vuole realizzare e tenere fede al progetto iniziale. Per farlo è importante avere alla spalle una certa disponibilità economica, perché il successo non è immediato e può richiedere anche mesi. Il secondo elemento è il team di collaboratori. Trovare persone preparate oggi non è difficile; lo è molto di più trovare professionisti con la giusta personalità, ovvero con un approccio aperto ed entusiastico e che sappiano creare un feeling con il cliente. Terzo, avere bene in mente qual è la fascia di clientela da soddisfare, anche modificando qualcosa, se necessario, nel progetto iniziale. Per un cocktail bar il target primario, generalmente, è costituito da persone dai 25 ai 40 anni di età, i cocktail lover, quelli che frequentano il locale per bere bene e che apprezzano il lavoro dei bartender. Vi è poi una seconda fascia di clienti, quelli che vogliono passare una serata gradevole in un buon posto, persone dai 22 ai 45 anni: anche questi vanno ascoltati e accontentati. Poi, vi sono tutti gli altri, quelli che entrano nel bar per i più diversi motivi: l’errore da evitare è accogliere le loro richieste, perché significa stravolgere il progetto senza ottenere alcun risultato.
Come si sta evolvendo la figura del bartender?
Il lavoro del bartender oggi non si limita all’attività dietro il bancone. Le mansioni si sono ampliate, secondo un percorso simile a quello che ha riguardato la figura dello chef: il bartender oggi è anche consulente per l’industria del beverage, autore di libri e di rubriche, e non solo per la stampa di settore, protagonista o creatore di show televisivi. Soprattutto, deve diventare un brand ambassador di se stesso e, quindi essere attivo anche sul mondo dei social. Questo non riguarda solo le “star” del settore, ma i professionisti a tutti i livelli: ci sono diversi bar che chiedono ai collaboratori di aprire e curare loro profili su Facebook, Instagram e Twitter. Ciò, se da un lato assicura visibilità, dall’altro comporta un ulteriore impegno che si aggiunge al lavoro al bar, nel frattempo diventato più duro.
Che idea ti sei fatto, invece, del panorama del bartending italiano?
L’Italia ha sempre avuto una grande tradizione di maestri della miscelazione, che però per lo più hanno avuto successo all’estero, pensiamo a personaggi come Peter Dorelli, Salvatore Calabrese o, tra i più giovani, Simone Caporale. Negli ultimi anni sto frequentando più spesso il vostro Paese e ho potuto notare come la scena nazionale si sia molto arricchita. Oltre a continuare a sfornare talenti, sono nati, soprattutto a Milano e a Roma, ma non solo, locali che non hanno niente da invidiare a quelli di Londra e New York. Un’evoluzione cui hanno contribuito l’esempio dei maestri, l’intraprendenza di professionisti e imprenditori e lo scambio e divulgazione di conoscenze, grazie anche a manifestazioni come Baritalia. E mi fa piacere riscontrare come, anno dopo anno, la presenza dei professionisti italiani a Tales of The Cocktail sta progressivamente aumentando di numero.