È uno dei più importanti bartender e barmanager mondiali. Dalla collaborazione con chef stellati, alle tendenze della mixology internazionale, ai nuovi progetti, Fabio Raffaelli si racconta ai microfoni di Bargiornale in occasione di una master class Campari Academy, mettendo in luce gli skill che servono per emergere a New York.

Fabio Raffaelli, 36 anni, pavese, vanta varie collaborazioni con chef stellati, di cui ha diretto i bar sulle due sponde dell’Atlantico: a Londra con Gordon Gordon Ramsay, in Spagna con Ferran Adrià e Gerhard Schwaiger, a New York con Joe Bastianich e Daniel Boulud. E nella Grande Mela, dove è approdato nel 2009, continua a lavorare come Corporate bar development director per il gruppo Apicii.

È tra i più acclamati bartender e bar manager di New York, la sua arte e stile hanno contribuito al successo di alcuni dei bar più importanti ristoranti pluristellati, come il Del Posto di Joe Bastianich e il Daniel di Daniel Boulud. Eppure l’incontro tra Fabio Raffaelli e il mondo della mixology avviene quasi per caso. Nel 2001 nei fine settimana inizia a lavorare come barman nelle discoteche della provincia pavese, dove è nato. Poi inizia a frequentare i corsi Aibes e a viaggiare in tutta Italia per seguire master e seminari per perfezionarsi. Nel 2004 è a Londra, dove lavora per Gordon Ramsay al Claridge’s Hotel, dove inizia la sua carriera con gli chef più rinomati. Qui conosce Salvatore Calabrese che lo porta con sè al Library Bar che resta il suo modello di classe e raffinatezza. È poi la volta di El Bulli con Ferran Adrià, poi con Gerhard Schwaiger a Palma de Mallorca. Nel 2009 va a New York in vacanza e lì da allora ci vive e lavora.
A spalancargli le porte della Grande Mela è un altro incontro casuale, quello con Andrea Sbrizzo, manager di Del Posto, che dopo una veloce chiacchierata lo ingaggia come head bartender, ruolo che lascia dopo due anni per andare a dirigere il bar del Daniel. La masterclass per Campari Academy, a Sesto San Giovanni, in uno dei suoi rari ritorni in Italia, ci ha offerto l’occasione per rivolgergli qualche domanda.

Collaborare coi grandi chef ha influito sulla tua idea di miscelazione?
Quello con la cucina è stato un incontro fondamentale, perché ha arricchito enormemente il mio bagaglio di conoscenze, permettendomi di imparare nuove tecniche, di accedere a ingredienti sconosciuti e difficili da reperire in altri contesti e fare tanta sperimentazione. E mi ha fatto capire l’importanza della semplicità, l’idea vincente nel mondo della ristorazione, e quindi a focalizzare l’impegno nella creazione di drink di qualità, ma non complessi da realizzare.

E, invece, l’incontro con New York?
È una città straordinaria per il mondo del bartending, sia perché detta le tendenze in fatto di drink e locali, sia perché il 90% dei clienti che entra in un bar ordina un cocktail. Qui si è compiuto un altro salto evolutivo nel mio percorso, dal punto di vista manageriale. Già nelle esperienze in Spagna e a Londra avevo imparato l’importanza della gestione economica. Questo significa elaborare menu che non contengano un numero eccessivo di drink, creare cocktail che possano piacere a un vasto target e realizzati con 3-4 ingredienti, dei quali al massimo un home made, con poche decorazioni, semplici da realizzare e che permettano un servizio rapido.

Che sviluppi prevedi a New York?
Attualmente va forte il mezcal: non c’è bar che non ne abbia 10-12 differenti tipologie e che non proponga cocktail a base del distillato. Altrettanto forte è l’interesse verso gli Irish whiskey. Credo però che il prossimo trend avrà come protagonisti i ron cubani, che, dopo oltre 50 anni di assenza, finalmente torneranno sul mercato americano. Una tendenza che sarà favorita anche dalla ripresa del turismo verso Cuba, che permetterà a molti americani di scoprire i classici drink dell’isola.

Che consiglio puoi dare a chi volesse tentare l’avventura nella Grande Mela?
Trovare un impiego negli Usa è meno facile di quanto possa sembrare. Innanzitutto, per la difficoltà di ottenere il visto, il cui rilascio esige una richiesta da parte di uno sponsor, cioè di un’azienda disposta ad assumere. Fondamentale è la conoscenza dell’inglese e occorre farsi conoscere, curando molto il curriculum, che deve riportare solo le competenze che davvero si possiedono, perché ogni informazione viene verificata. Un altro utile strumento sono i social media, che però vanno utilizzati per mostrare quello che si fa e non la propria idea del mondo. Soprattutto, occorre avere una conoscenza a 360° del mondo bar, dalla miscelazione agli spirit, dalla caffetteria ai vini fino al servizio del food, e la capacità di lavorare in team. È questo un concetto che deve essere ben chiaro anche ai bartender: a New York non esiste la posizione del mixologist, perché chi lavora nel locale è chiamato a occuparsi di tutto.

Quali sono i barman italiani che stanno lasciando il segno negli Usa?
Inizio con Francesco Lanfranconi, a Las Vegas, national mixologist per Southern Wine & Spirits. A New York, Damiano Coren, che ha da poco lasciato il ruolo di head bartender dello Standard Hotel nell’East Village, dove ha creato un cocktail program che ha fatto faville, ruolo ora passato al suo secondo, Salvatore Tafuri. Enzo Cangemi, un genio della miscelazione, ora head bartender del Bar Fortuna, poi la coppia Pietro Collina e Davide Bonatesta del NoMad Bar. Infine, spostandoci a Los Angeles, William Perbellini del bar Toscana e Jacopo Falleni, che dopo una lunga carriera da bar manager ha aperto il suo ristorante Firenze Osteria.

A quali nuovi progetti stai lavorando?
Con Dushan Zaric, proprietario di Employes Only, mi sto occupando dell’apertura di alcuni ristoranti e locali a New York per il gruppo Apicii: abbiamo da poco inaugurato Bar Fortuna, nel Greenwich Village, un bar da aperitivo con solo 35 posti a sedere, che propone esclusivamente drink italiani classici, preparati al carrello davanti al cliente.

 

 

 

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