Confessioni di un coffee taster: di caffè crudo buono ne gira poco e l’espresso è spesso sgradevole. Per fortuna ci sono nuove leve di baristi e caffetterie che puntano tutto sulla qualità.
Edy Bieker ha da poco ricevuto il Lifetime Achievement Award, il premio europeo alla carriera di Scae - Specialty Coffee Association of Europe - per quarant’anni di impegno, ricerca e passione dedicati al caffè. I suoi primi passi li compie a Trieste in ARC, società di commercializzazione di caffè crudo. Nel 1990, rimanendo sempre a Trieste, sbarca in Sandalj Trading, società specializzata nell’importazione e distribuzione di caffè verde delle migliori qualità. Qui diventa responsabile della qualità e della formazione, area ai tempi guidata da Vinko Sandalj, uno dei suoi grandi maestri (oggi Bieker siede anche nel consiglio di amministrazione della società triestina). In breve tempo Bieker diventa uno dei coffee taster più competenti e conosciuti tra gli addetti ai lavori. E a chi di cupping ne fa e ne ha fatti davvero tantissimi rivolgiamo alcune domande che molti si pongono:
Cos’è e come si fa a riconoscere un buon caffè?
Deve essere prima di tutto privo di difetti. Il gusto amaro è presente in qualsiasi caffè: se, però, si trovano sentori di terra, di legno, di vegetale, di gomma bruciata o se nella parte dolce emergono sentori di frutta fermentata o se, ancora, si percepisce l’astringenza, si è di fronte a un prodotto scadente. Se, al contrario, non ci sono elementi negativi, si può definire la materia prima come quantomeno neutra, “non sgradevole”. La differenza in più la fanno gli altri aspetti gustativo aromatici.
Globalmente la qualità del caffè sul mercato è buona e sta migliorando?
Il prodotto che si può definire buono è davvero poco. A differenza del mondo del vino, in cui dopo lo scandalo del metanolo si è compreso che si poteva produrre meno ma con qualità a un prezzo più interessante, l’aumento della richiesta di caffè a livello planetario ha fatto sì che ciò non avvenisse.
Si sono cercate varietà più produttive e resistenti alle malattie a discapito della qualità. Chi è da tempo nel settore e afferma che i caffè che provengono da alcuni Paesi non sono più quelli di una volta, ha ragione: spesso la stessa origine si presenta più “anonima”. Tra le cause ci sono un metodo di lavorazione, qual è il semilavato, che ha appiattito la parte aromatica, e l’affermarsi del fenomeno dei microlotti, piccoli raccolti di pochi sacchi che fino a pochi anni fa venivano uniti al prodotto di aree più grandi e al quale davano una particolare personalità. Oggi queste micro produzioni sono vendute a parte, spesso a prezzi molto elevati per il piacere di un piccolo numero di cultori del buon caffè. In Italia, purtroppo, molti offrono e bevono un caffè sgradevole senza accorgersene. L’operatore spesso non è in grado di comprendere l’effettiva qualità dell’offerta, mentre l’abitudine della “tazzina” bevuta in fretta al banco bar è un grosso limite alla comprensione e alla richiesta di un buon prodotto.
L’acidità è un elemento qualificante per un buon caffè?
Si tratta del “gusto” che discrimina l’Arabica dalla Robusta: la prima specie ha un patrimonio genetico di 44 cromosomi, la seconda di 22, che al gusto si traduce in una totale assenza di acidità. Non è detto che un caffè 100% Arabica sia forzatamente buono e migliore di un Robusta neutro. Ma è vero che in un buon Arabica gli aromi possono spaziare dall’amaro al dolce, all’acido: quest’ultimo, se piacevole, permette di avere un ventaglio aromatico più ampio, dunque un caffè caratterizzato da un panorama di percezioni che ognuno di noi coglie in base alla propria sensibilità e che possono spaziare tra aromi floreali, speziati, fruttati e molto altro ancora. C’è chi ricerca nel caffè un’importante presenza di acidità citrica, ma si tratta di interpretazioni personali in quanto non esiste alcuna “bibbia” che affermi che un caffè che sa di acido citrico sia migliore di uno con altri sentori che non siano legati solo all’acidità.
Cogli segnali di cambiamento da parte dei baristi nei confronti del caffè?
Negli ultimi anni i segnali di cambiamento sono notevoli grazie all’ingresso sul mercato di giovani che sono curiosi e vogliono conoscere a fondo il prodotto, per proporlo al meglio a un cliente che per lo più ignora la complessità e la ricchezza, anche aromatica, del caffè. Trovo molto positiva l’apertura di caffetterie di qualità, un fenomeno che in Italia si muove a macchia di leopardo e che vede in Scae un propulsore importante.
Quali le principali lacune che trovi nei giovani baristi?
Mi stupisce il fatto che, pur avendo seguito anche corsi qualificati, spesso non abbiano gli strumenti per riconoscere i difetti del caffè in tazzina. Migliorano, invece, le cose sul fronte della pulizia: le giovani generazioni ne hanno finalmente compreso l’importanza.
Talvolta non si corre il rischio di valutare positivamente il caffè offerto da una torrefazione più per il suo nome esotico che per l’effettiva qualità?
Di nuovo ci vuole conoscenza. Oggi va di moda la tostatura chiara, che è indicata per le estrazioni a filtro, ma meno per l’espresso, in quanto non permette la giusta maturazione degli aromi e potrebbe mascherare dei difetti. Ritengo sia meglio ridurre la gamma dei fornitori, da scegliere in base alla serietà. Ciò che si legge in etichetta si deve trovare in tazza e il confronto con il torrefattore deve essere aperto: mi fa sempre piacere il fatto che chi assaggia i caffè che racconto nelle mie presentazioni ritrovi poi, al momento dell’assaggio, le stesse caratteristiche di gusto che ho descritto.