La vera storia di Howard Schultz, alias Mister Starbucks

Imprese&mercati –

Un libro racconta la genesi di Starbucks, colosso mondiale delle caffetterie all’americana

Nel Belpaese c'è chi non dorme la notte e non vive (di giorno) al pensiero che, prima o poi, Starbucks approdi in Italia. Per Taylor Clark, giornalista originario di Ashland in Oregon, la catena di Seattle che serve espresso e cappuccino in cinquanta Paesi del mondo è un'ossessione, iniziata per gioco e culminata nel best seller “Starbucks, Il buono e il cattivo del caffè (284 pagine, 19 euro, www.egeaonline.it). Con un'assoluzione a sorpresa. Clark, pur criticando i diversi aspetti del business, mostra come siano infondati alcuni degli attacchi più ricorrenti. Come l'accusa di rovinare le piccole caffetterie a gestione familiare, come Wal-Mart con i minimarket o, da noi, Esselunga con i negozi di vicinato. La verità è che nel 1989 gli Stati Uniti contavano 585 caffetterie e oggi sono 24.000: come a dire che all'agnello conviene metter su casa vicino al lupo. Di più: prima (di Starbucks) un americano spendeva tra i 25 centesimi e il dollaro per un caffè (pessimo), oggi spende in caffè 4,05 dollari a visita.

Quel viaggio illuminante in Italia
La Starbucks che conosciamo è figlia della visione che Howard Schultz, storico amministratore delegato, ha sviluppato in occasione di un viaggio a Milano nel 1983. Ai suoi occhi ciò che rendeva bella la vita dei milanesi non era la moda o la Scala, sollazzi per pochi, ma gli immancabili caffè, conforto per molti. Sui banconi dei bar, riassume l'autore, “preferirebbero porgere al cliente una vecchia scarpa puzzolente che servirgli il caffè in un bicchiere di carta da asporto”. Ricreare in America l'autenticità della caffetteria italiana diventò il pensiero dominante di Schultz fino a quando non si accorse che il consumatore americano si attendeva altro e la forza dell'impresa, oggi, è quella di riuscire a vendere come caffè, a prezzi impensabili qualche anno fa, bevande a base di latte dai sapori più disparati. Tanto che per consentire ai clienti di padroneggiare le 55.000 ordinazioni possibili è stato sviluppato un vero e proprio gergo per iniziati, che contribuisce a creare fedeltà.
Con il tempo però l'attenzione alla qualità si è “annacquata” al punto che la pubblicazione Consumer Reports è arrivata a sostenere che il caffè di McDonald's sia migliore di quello di Starbucks (sic!). E l'inizio della fine? Voci di corridoio bisbigliano di 900 punti vendita chiusi nell'ultimo anno. Ma Schultz ha un altro asso nella manica. O, perlomeno, è quanto si auspica il giornalista, Riccardo Staglianò, nella prefazione. “L'economia non va bene, la gente stringe la cinghia su tutto ed è probabile che ci penserà due volte prima di pagare 4 dollari per un caffelatte…ma fuori listino si può ottenere lo “short” da 8 once, che è pur sempre più abbondante di un nostro cappuccino… Sembra la misura ideale anticrisi. La Fed riduca gli interessi, Starbucks sdogani il “corto”.

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