Poteva fare l’architetto, invece Andrea Lattuada è l’apripista nel mondo dei caffè “specialty”. Oggi è titolare di una scuola per barman che sforna campioni. Con lui parliamo di tendenze e cultura dell’espresso.
Andrea Lattuada, 43 anni di Tortona (Al), è tra i pionieri italiani del mondo degli specialty coffee, ma soprattutto della formazione e ha al suo attivo corsi svolti in Italia e nel mondo a migliaia di baristi. E sa che ascoltare e rispondere con cura a ogni richiesta, anche la più semplice, può essere l’inizio di un grande cammino. La conferma si ha nelle importanti figure che con lui hanno mosso i primi passi sul mondo del caffè: i più volte campioni italiani di Latte Art Andrea Antonelli e Chiara Bergonzi (seconda alla finale mondiale del 2013), il cinque volte campione nazionale di Coffee in Good Spirits, terzo al mondiale 2009 e sesto nel 2014 Francesco Corona, il campione italiano Baristi e sesto alla finale mondiale 2014 Francesco Sanapo, la campionessa italiana Baristi 2012 Elisa Molle e il campione nazionale baristi 2013 e 2014 Giacomo Vannelli, tanto per citarne qualcuno.
Come ti sei avvicinato al mondo del caffè?
Studiavo architettura e per pagarmi gli studi lavoravo come bartender. Un giorno Roberto Pregel, allora direttore marketing di Brasilia, mi propose di dare il via a un’accademia di formazione sull’espresso. Gli confessai di non sapere alcunché di caffè, ma mi disse di non preoccuparmi: mi diede un libro di formazione da lui scritto e seguii alcune lezioni. Facemmo il primo corso da un cliente greco, a Salonicco: fu un successo. Poi mi convinse a partecipare al campionato italiano baristi nel 2002: eravamo 4 e arrivai ultimo. Fu la “molla” per migliorarmi. L’anno dopo vinsi il campionato nazionale e andai al mondiale a Boston: arrivai nono. Al ritorno in Italia fui accolto dalle proteste, ma gli altri concorrenti erano preparati, arrivavano alla gara con caffè particolari, preparazioni studiate, con le quali le nostre miscele e i ricettati classici non potevano competere. Non era facile farsi comprendere, ma, forte dell’appoggio di personalità quali Vinco Sandalj, Roberto Pregel e Lino Alberini, andai avanti. Nel 2005 ho aperto la mia scuola a Retorbido (PV), la 9bar, dove nel 2006 è arrivato un barista a seguire un corso per perfezionare le tecniche di Latte Art: era Francesco Sanapo. Mi confessò che i cinque giorni di training gli avevano aperto un mondo nuovo.
In Italia vedi crescere l’attenzione nei confronti del caffè di qualità?
È un cammino lento, che tuttavia progredisce e porta alla consapevolezza che il caffè non deve essere un prodotto standard, ma una bevanda versatile, che può essere preparata e caratterizzata in modi diversi in base alla materia prima che si utilizza, al fine di esaltarne le proprietà tattili, gustative, di flavour.
Cos’è un caffè “specialty”?
È un caffè unico, di grande qualità perché coltivato in condizioni particolari, curato con attenzione, raccolto e selezionato drupa per drupa, processato con criterio, per ottenere un caffè fuori della norma. Scae organizza selezioni internazionali - le Cup of Excellence - che aiutano a individuare questi prodotti particolarmente pregiati.
Nel nostro Paese come sono accolti?
Con tempi lunghi rispetto ad altri Paesi, ma cominciano a farsi notare, anche se spesso non sono compresi per via della differenza con la miscela che si trova nella maggioranza dei bar italiani. Il consumatore italiano è più attento ad esempio alla texture della crema che alle caratteristiche qualitative e organolettiche. Alcuni specialty vicini alle sue aspettative sono apprezzati; altri hanno caratteristiche eccellenti, ma non risultano graditi in quanto hanno una nota acida che nel nostro Paese non si associa all’espresso e al caffè in genere. Ma se è positiva, dà un’esperienza di gusto interessante.
Cosa intendi per acidità “positiva”?
L’acidità non è un “difetto”, ma una caratteristica di molte varietà di Arabica. È positiva se non è persistente, pungente, ma piacevole e “fresca”, fa salivare e porta continuamente gli aromi all’interno della bocca, rendendoli riconoscibili. Accanto al caffè, è importante la tostatura: se è molto scura, prevale l’amaro e gli aromi che caratterizzano quella origine sono annullati. Un bravo torrefattore deve permettere alle diverse varietà di esprimere al meglio le proprie caratteristiche.
Sei stato coordinatore di Scae Italia per cinque anni; cos’è cambiato in questo lasso di tempo?
Quella della Specialty Coffee Association of Europe è una storia recente: è stata fondata nel 1998 e ha faticato non poco a farsi comprendere. I primi campionati si svolgevano con la sola finale e pochi concorrenti. Parlare di specialty, delle giuste procedure per ottenere un espresso e di altri metodi di estrazione (filtro, french press, aeropress...) non è stato facile. Ma piano piano si sono formati “veri” baristi che hanno trasmesso la propria passione. Il numero degli iscritti è aumentato e oggi l’associazione è più che mai vitale. Una vera soddisfazione. Sono certo che il direttivo eletto lo scorso gennaio sarà in grado di proseguire e rendere ancora più fluido questo cammino positivo.