Il gestore non farà più lo sceriffo antifumo

Norme&Fisco –

Agli esercenti non può essere delegato un ruolo di controllo nei confronti di chi non rispetta il divieto di fumare: lo ribadisce una recente sentenza del Consiglio di Stato, che conferma una precedente decisione del Tar del Lazio

Alt ai gestori come “sceriffi” antifumo. I responsabili dei bar e dei locali aperti al pubblico non sono tenuti a controllare la condotta dei clienti. Non è loro compito vigilare sul rispetto delle regole antifumo.
A ribadirlo è anche una sentenza del Consiglio di Stato (la 6167/09), che ha confermato la precedente decisione del Tar del Lazio sulla parziale illegittimità della circolare del ministero della Salute datata 17 dicembre 2004. Con quel provvedimento si attuava l'articolo 51 della legge 3 del 2003 (legge Sirchia), che aveva esteso il divieto di fumo a tutti i locali chiusi (compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico, gli esercizi commerciali e di ristorazione, i luoghi di svago ecc), con le sole eccezioni dei locali riservati ai fumatori e degli ambiti strettamente privati (abitazioni civili). Dopo il ricorso presentato dal Silb, il Tar del Lazio aveva bocciato la circolare nella parte in cui imponeva ai responsabili di locali privati aperti al pubblico, o loro delegati, l'obbligo di richiamare formalmente i trasgressori all'osservanza del divieto di fumare. Non solo perché, in caso di inottemperanza al richiamo, veniva prevista la necessità di segnalare il comportamento dei trasgressori ai pubblici ufficiali competenti a contestare la violazione e a elevare il verbale di contravvenzione. Nell'ipotesi dell'inosservanza di tale obbligo, il questore avrebbe potuto sospendere (per un periodo da tre giorni a tre mesi) o revocare la licenza di esercizio.

Previsione legislativa

Tutte prescrizioni che, già secondo i giudici di primo grado, non potevano essere imposte con una semplice circolare. Una posizione che ha ribadito anche il Consiglio di Stato, rigettando l'appello presentato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, perché “occorreva una previsione legislativa per imporre i doveri di vigilanza nei confronti di soggetti esercenti la propria libertà di iniziativa economica privata nell'ambito di locali aperti al pubblico, in qualche misura trasformati in incaricati di una pubblica funzione, o, quanto meno, di un pubblico servizio”. Con un'ulteriore precisazione di quali siano le effettive competenze dei gestori di locali: l'obbligo a cui la legge li chiama “è solo quello di esporre, in posizione visibile, cartelli riproducenti il divieto di fumo, con l'indicazione della sanzione ai trasgressori”.
Questo però non significa che in bar e pubblici esercizi si possa tornare a fumare. Tanto è vero che, in un successivo passaggio della decisione, è lo stesso Consiglio di Stato a far presente che “la disciplina sul divieto di fumo, introdotta dall'articolo 51 della legge n. 3/2003, è tale da avere un ambito oggettivo di applicazione esteso a tutti i locali chiusi ma aperti a utenti o al pubblico come discoteche e simili, per cui la (consentita) riserva di taluni di questi ai fumatori si pone come eccezione alla regola”. Pertanto la possibilità di fumare non può essere consentita se non in spazi di dimensione inferiore e opportunamente attrezzati all'interno dei locali.
La sentenza, ha chiarito anche la Fipe, «non farà cedere alcuna trincea e non farà riaprire alcun caso; né tale sentenza dà e darà mai la possibilità di tornare ad accendere la sigaretta nei pubblici esercizi».

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