La birra con i carciofi? Fatta. Quella con tabacco toscano in infusione? Pure. Birre con mosto di vino o uva impiegate nella ricetta? Idem. Addirittura l’autorevole Beer Judge Certification Program, la classificazione americana sulla quale si poggiano i concorsi più autorevoli a livello mondiale, le ha riconosciute come stile distintivo italiano: “Italian Grape Ale”. Insomma, quanto a fantasia e originalità i birrai italiani non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi europei e americani. Il rovescio della medaglia è che, troppo spesso, si tende a considerare la birra artigianale come quella “strana”, quella che “non sa di birra”, quella che “sì, interessante, ma la birra è un’altra cosa”. Niente di più sbagliato perché se è vero che l’attenzione dei media si è fatta affascinare dall’ingrediente insolito, esistono un numero enorme di birre artigianali, ergo non pastorizzate e create da piccoli produttori indipendenti, che sono fatte come le presunte “birre birre” ovvero acqua, malto d’orzo o altri cereali, luppolo e lievito.
Le birre artigianali italiane tra "leggende" e realtà
L’equivoco, ovvero quello di considerare come artigianale un’ipotetica birra ai carciofi e mainstream o industriale la birra “acquamaltoluppololievito” è stato fomentato per anni soprattutto dalla stampa generalista, che ha a lungo inquadrato il fenomeno dei piccoli birrifici artigianali come dei simpatici ragazzi alle prese con dei pentoloni nel garage di papà.
La realtà, ovviamente, è ben diversa. Vero che i primi birrai si sono ispirati, nei loro passi iniziali, alle scuole birrarie d’oltralpe (Belgio, Germania, Regno Unito) e d’oltreoceano (Stati Uniti); vero anche che il sentirsi liberi da tradizioni e vincoli li ha portati a scoprire e sperimentare frutta, spezie, radici del loro territorio; vero infine che la vicinanza con cantine vinicole li ha spinti anche sulla strada del connubio, a volte felice a volte un po’ meno. Tuttavia la birra artigianale italiana è, e lo è stata fin dall’inizio, anche birra così come il pensiero comune la definisce.
Una ad esempio delle più iconiche produzioni artigianali, la Tipopils del Birrificio Italiano in provincia di Como, è nata nel 1996 come “birra birra” ovvero bassa fermentazione, malti chiari, luppolo tedesco (aggiunto, aspetto innovativo e determinante, anche in dry hopping) e lievito. Una birra che ha fatto presto scuola, omaggiata anche negli States (dal celebre birrificio californiano Firestone Walker con la sua PivoPils), ma che in Italia è rimasta a lungo abbastanza isolata nel mare magnum delle alte fermentazioni.
Birre a bassa fermentazione: successo in crescita
Oggi invece sembra che la tendenza se non invertita stia almeno allargandosi anche alle birre di bassa fermentazione ergo dai profumi più dettati dai malti e dai luppoli, meno esteri quindi minore intensità fruttata, grado alcolico “normale” (circa 5% vol). Paragonabili, in poche parole, alle birre che l’italiano considera più facilmente tali. Uno dei principali interpreti delle basse fermentazioni artigianali italiane è certamente Josif Vezzoli che, insieme al fratello Raoul, ha fondato nel 2013 il birrificio Elvo in quel di Graglia, provincia di Biella. Forti di una fonte d’acqua particolarmente indicata per le birre di bassa i fratelli Vezzoli sono passati in pochi anni da cento ettolitri a duemila e dai tre, quattro locali serviti ai circa quaranta di oggi. «La crescita c’è stata senza dubbio - ci conferma Josif -. Oggi su circa venti birre in produzione, diciassette sono di bassa fermentazione. Abbiamo un’acqua leggerissima, perfetta per queste tipologie e cerchiamo sempre di dare vita a birre che siano “da bere”, equilibrate e pulite. Se vogliamo semplici, ma ci stiamo rendendo conto, soprattutto da quando abbiamo aperto il nostro beer garden, che sono quelle che incontrano il gusto della maggior parte dei consumatori».
Ecco, in fondo, è nelle parole del giovane birraio biellese che si cela il segreto del successo delle birre a bassa fermentazione. Piacciono praticamente a tutti: sia al bevitore casuale che si ritrova nel loro gusto più canonico, sia al più esigente che si compiace di quel bilanciamento perfetto e calibrato che fa finire il boccale in un paio di minuti. Perché birre “semplici” non significa birre “facili” al contrario, trovare il perfetto equilibrio con quattro ingredienti è infatti come costruire un castello di carte dove il minimo errore ne determina il crollo.
Ma, allo stesso tempo, queste sono le birre che sempre più mantengono una posizione fissa anche nei pub indipendenti, dove il turn over alle spine a volte rasenta la schizofrenia, e che stanno lanciando un interessante “guanto della sfida” alle basse fermentazioni di produzione industriale. Una sfida interessante proprio perché giocata nel loro secolare “campo pratica”. Dove non sarà più possibile dire “ah, ma questi ci mettono il carciofo e poi passano tutto in botte di legno, noi invece produciamo birra”. E allora la differenza la faranno la qualità degli ingredienti, le piccole varianti di gioco in termine di malti, il luppolo fresco contro l’estratto di luppolo, la pastorizzazione contro la decantazione ecc..
In palio c’è un premio fondamentale, almeno per la sopravvivenza dei piccoli birrifici: il grande pubblico. Magari non la famosa, per quanto ormai forse deceduta, “casalinga di Voghera” ma tutta quella fascia di consumatori che si colloca a metà strada tra quelli del “divano e birra gelata” e gli enciclopedisti del nome e cognome del ceppo di lievito usato.
L'impatto del Covid dopo un 2019 da record
Davvero un peccato. Non ci fosse stato l’imprevedibile Covid-19 a disturbare la festa, l’ultimo Annual Report di AssoBirra, ovvero quello relativo all’anno 2019, sarebbe stato da incorniciare. In realtà da incorniciare lo è perché l’anno scorso la birra in Italia ha messo a segno solo risultati positivi. Cresciuta la produzione del 5% rispetto al 2018, e superato il “muro” dei 17 milioni di ettolitri, cresciuto il consumo interno del 2,6%, oltrepassando la barriera dei 20 milioni di ettolitri, con un notevole litro in più per quello che riguarda il consumo pro-capite (34,6 litri nel 2019) e infine autentico boom delle esportazioni (+13%) con i risultati più importanti messi a segno in Paesi dove la birra è la bevanda della tradizione come Regno Unito, Stati Uniti e Australia. Considerevole, infine, l’aumento dei posti di lavori creati dal mercato birra e la crescita del fatturato complessivo degli associati (3,3 miliardi di euro circa contro i 3,1 circa del 2018). Unico neo, dal punto di vista dei locali, la quota dei consumi fuori casa che si è ridotta progressivamente al 36%.
«Il 2019 ha confermato la crescente predilezione degli italiani per la birra che, anno dopo anno, assume un ruolo sempre più di rilievo nel panorama del beverage italiano e di conseguenza nell’economia nazionale», ha confermato Michele Cason, presidente di AssoBirra. Tuttavia, se il 2019 è stato l’anno dei record, ultima di una serie di tappe tutte in crescendo per quello che appare essere un trend durevole, il 2020 con il lockdown per alcuni mesi e le incertezze legate alla stagione estiva si sta trasformando in una battuta d’arresto che, per alcuni protagonisti del settore, si quantificherebbe in un calo a doppia cifra di volumi e fatturato. Non a caso allora, il vicepresidente di AssoBirra Alfredo Pratolongo si è fatto portavoce delle richieste più pressanti di un settore che sta assicurando ricchezza al Paese.
Due le misure principali richieste alle istituzioni: «La prima misura che chiediamo riguarda un intervento strutturale che, mediante la riduzione delle accise, consenta al comparto di rimanere competitivo nello scenario attuale e fronteggiare al meglio il calo stimato dei volumi e dei consumi made in Italy».
Accise che per inciso, in soli 15 mesi - dall’ottobre 2013 a gennaio 2015 - sono aumentate di ben il 30%. «E la seconda richiesta - ha concluso Pratolongo - riguarda invece un sostegno immediato al canale Horeca, tramite un supporto concreto alla liquidità dei singoli esercenti». Misure, entrambe, che avrebbero il compito di far ricordare il 2020 come una battuta d’arresto. E non, piuttosto, come una pericolosa inversione di tendenza.