Strategie anti-gavetta per la pausa pranzo

Pausa pranzo –

Nonostante bar e affini detengano ancora il 74,6% delle visite fuori casa a mezzogiorno, devono fare i conti con la tentazione dei clienti di portarsi il pasto da casa. I consigli dei nostri esperti

Nei momenti economicamente complicati è abituale la ricerca dei cosiddetti beni rifugio. Investimenti sicuri di cui si sa che per certo daranno un ritorno, magari non elevato ma sicuro. Sono beni rifugio il mattone, l’oro, i buoni del tesoro e, per i gestori di bar, la pausa pranzo. Dopo un buon decennio in cui si è puntato soprattutto sulle formule serali, come la cena veloce, l’apericena o l’happy hour, il mondo della ristorazione veloce italiana, e del bar in particolare, sta tornando a occuparsi del pranzo. «Il motivo - spiega Mauro Lamparelli, partner e direttore sviluppo di TradeLab, società milanese di analisi dei consumi - è che la fascia oraria di consumo dalle 11 alle 15 ha una forte valenza funzionale, perché accoglie persone che lavorano e hanno necessità di mangiare». Anche perché, in percentuale, sono pochissime le imprese italiane di dimensioni tali da garantire una mensa interna. È anche vero però che aumenta la concorrenza. La fascia oraria dalle 11 alle 15 è ormai la più interessante a livello di tutto il fuori casa, e non è strano, quindi, assistere al tentativo di colonizzarla nel modo più disparato, dal take away o street food di qualità più bassa all’alta ristorazione. «Nonostante aumenti fortemente la tendenza di molti di portarsi il cibo da casa o di rivolgersi a esercizi di prossimità come rosticcerie o panetterie che si insinuano nel settore fuori casa - continua l’esperto -, il bar vive ancora una situazione di privilegio, spesso una rendita di posizione, che fa sì che il pubblico tenga»

Occupazione del mercato

«Sebbene i consumi siano in calo - osserva Matteo Figura, responsabile foodservice di Npd Italia - si parla comunque di volumi ancora interessanti, con oltre 3 miliardi di visite nel 2012 e una spesa complessiva di oltre 17 miliardi di euro, che rappresenta il 34%, un terzo, di tutto il consumo fuori casa in Italia. Lo scontrino medio ha un valore di circa 5,70 euro».
Ed è proprio sul prezzo che si gioca la battaglia. «Oggi proporre una soluzione per il pranzo con uno scontrino oltre i 10 euro - sottolinea Carlo Meo, esperto di marketing e amministratore delegato della società Marketing & Trade - significa essere già un po’ troppo alti di prezzo. Oltre i 15 euro si è fuori mercato. Chi è quindi in possesso di una formula già collaudata, dalle insalaterie ai locali free-flow, dagli street food esperienziali come le hamburgerie a quelli più basici, come i kebab, deve riuscire a dare una proposta pranzo tutto incluso, acqua, cibo e caffè, entro i 10 euro. Significa lavorare riducendo al minimo ogni marginalità, quasi soltanto per fare volume più che profitto». In questo scenario si devono misurare anche i bar, da cui il pubblico si aspetta prezzi ancora inferiori. Il cosiddetto “quick service”, quindi bar e affini, detiene ancora il 74,6% delle visite fuori casa a pranzo, mentre la ristorazione si attesta sul 19,1% con un 6,3% occupato da altre strutture, tra cui anche il retail e i centri commerciali.
In uno scenario in cui si assiste al tentativo di differenziare il più possibile l’offerta, con proposte iperspecializzate, dal bar alla frutta al bar forno, dalla gelateria da pranzo al paninaro gourmet, quale strada può prendere il gestore “normale”?

Tendenze in atto

«La formula molto orientata su uno specifico prodotto o servizio – osserva ancora Meo – può essere una strada da sviluppare per le catene o per i gruppi che possono fare grandi investimenti. A mio avviso invece il gestore di un bar indipendente deve fare attenzione a non farsi attrarre da modelli molto difficili da imitare e cercare di recuperare la dimensione del barista di una volta, cercando di lavorare restando nel contesto in cui si trova». Come si traduce questo consiglio? Chi deve consumare un pranzo fuori casa per necessità è alla ricerca di un posto confortevole, dove mangiare grosso modo quello che mangerebbe a casa propria. «Non tutto - avverte ancora Meo - deve essere per forza “superfigo”, spersonalizzato, estremo fino al punto di diventare una sfida».
Un ritorno alle cose semplici può quindi essere la soluzione: proporre i panini della tradizione, al salame, al prosciutto, al formaggio, senza strafare, ma semplicemente avendo cura di proporre un pane buono e prodotti scelti per la qualità, inappuntabili e saporiti.

Prezzi e promozioni

Ma quello che manca al bar italiano è la flessibilità e la prontezza nell’adeguarsi alla nuova situazione. «La ristorazione - sottolinea Lamparelli - è molto aggressiva e sta proponendo sempre più soluzioni per il lunch a prezzi molto contenuti. Il bar invece non si adatta. Basti pensare che è forse l’unica tipologia di esercizio in Italia che non pratica promozioni o attività di fidelizzazione. In un mondo in cui siamo bombardati dalle offerte, questo atteggiamento è anacronistico». Cosa bisogna fare allora? «Nella pausa pranzo - suggerisce Lamparelli - non può andar bene la tesserina dei caffè o dei cappuccini a colazione, uno omaggio ogni dieci consumati. Però si possono applicare altre strategie: per esempio, in un giorno fisso della settimana, applicare un prezzo ridotto oppure decidere di offrire un prodotto a fine pasto, uno yogurt o un caffè, giusto per fare due esempi». Quanto alla fidelizzazione, potebbe essere orientata a riportare il cliente nel locale in un altro orario di consumo. «L’ospite abituale in pausa pranzo - dice ancora Lamparelli - potrebbe essere premiato con un caffè gratis a metà pomeriggio, in una fascia oraria ormai sempre più deserta per i bar perché “riempita” dal vending e dalle macchine automatiche che portano direttamente negli uffici quello che il consumatore cerca». n

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