Un viaggio olfattivo e visivo prima ancora che gustativo: la spedizione a Oriente che Campari aveva richiesto ai bartender desiderosi di conquistare il titolo di Campari Competition Barman of the Year 2016 ha portato a casa frutti interessanti, come emerge dall’analisi dei 13 drink che si sono contesi l’ingresso in finale. Non 13 cocktail qualsiasi, ma ricette filtrate con un colino dalla trama molto molto fine: solo 300 bartender ammessi alle qualificazioni su 1.500 candidati e un solo prescelto per ognuna delle 12 giornate di gara (più un ripescato dal voto popolare, proprio per fare 13).
Alla fine di questa selezione darwiniana è emersa Luana Bosello, talentuosa barlady del Del Cambio di Torino che con il suo cocktail Mage Sadu nella finale a tre ha prevalso sui colleghi Nicola Scarnera (Backdoor 43 di Milano) e Pietro Appeso (Old Fashion di Taranto).
Luana ha giocato sul contrasto tra dolce e piccante: la sua ricetta preparata con metodo shake&strain, prevede 4 cl di Campari, 2 cl di Wild Turkey 81, 1,5 cl di sciroppo al tamaringo, 2 cl di estratto di mango, 3 gocce di olio essenziale al pepe nero e una macinata di pepe nero per guarnizione.
Amerigo, il drink di Scarnera arrivato secondo e preparato con metodo stir, prevede 1,5 oz Campari, 1 oz di tè frutti rossi e ibisco, 5 ml di riduzione di vermouth, 10 ml Wild Turkey Rare Breed e un peel come guarnizione. Il milionario, del terzo clasificato Piero Appeso, è fatto con metodo shake & double strain con 1 oz Campari, ¾ oz Biancosarti, 1 oz Bankes London Dry Gin, 1 bar spoon di doppio cedro, 1 bar spoon di Amaro Braulio, 1 drop di olio essenziale di anice, una spruzzata di estratto alcolic di lemon grass guarnito con dragon eye, anice stellato e melagrana.
Minimalista o rococò?
Due i filoni più evidenti - e opposti - emersi dalle 13 ricette che si sono contese i tre posti in finale (e ritrovate in finale): da un lato l’ambizione al ritorno alla semplicità, fatta di drink con pochi ingredienti e una presentazione piuttosto sobria, semmai impreziosita da un bicchiere elegante.
Dall’altro, all’opposto, la ricerca di una presentazione scenografica. Un drink da mettere sul palcoscenico come se fosse l’attore protagonista di una messinscena dove, ad accompagnare il bicchiere (spesso “di bella presenza”), ci sono una scenografia curata e, non di rado, qualche altra figura di contorno: un oggetto che racconta un po’ dell’ispirazione del drink (si sono viste statuette giapponesi, bauletti da viaggio, tovaglie da pic nic ecc.), e side di varia natura (da mangiare, da bere, da annusare o semplicemente ornamentali). Accanto a questi, emerge la tendenza a ricorrere a ingredienti frutto di ricerca e di manipolazione, non di rado lavorati prendendo a prestito le tecniche della cucina. Tra questi, gli home made la fanno da padrone.
Sempre più spesso, nelle presentazioni dei cocktail il side prende il posto della guarnizione del drink, che tende a sparire o diventa minimalista. E accanto al classico side pensato con la logica del food pairing (un finger food che si sposa con il drink rendendo l’esperienza degustativa più ricca), sempre più spesso l’accompagnamento è pensato con la logica di coinvolgere altri sensi oltre al gusto: «Dai tovaglioli imbevuti di essenze all’ingrediente presentato puro, il ruolo del side - spiega Alessandro Melis, a capo della giuria tecnica del concorso -, diventa quello di fornire un coinvolgimento olfattivo e visivo al cliente prima ancora che assapori il drink, rendendo così l’esperienza più ampia e forte».
Niente improvvisazione
Sia la scelta della semplicità, sia quella della ricerca, più o meno estrema, presentano delle insidie. «Saper fare drink semplici richiede grandi competenze - continua Alessandro Melis -. Ma se uno riesce a creare un cocktail equilibrato fa davvero bingo, perché essendo facilmente replicabile è veloce da fare per chi lavora dietro il banco e facile da bere per i clienti». Della serie: tutti contenti.
Per chi invece percorre la strada della ricerca, più o meno estrema che sia, il rischio maggiore è quello di deragliare. Due gli incidenti di percorso più frequenti: il primo è di maneggiare ingredienti insoliti senza le adeguate conoscenze. Un esempio? Ok all’uso degli olii essenziali nel cocktail, ma se non uso quelli commestibili e poi servo il drink nel mio locale rischio la denuncia. Il secondo è che, per rincorrere l’originalità a tutti costi cercando di imitare i grandi mixologist, si perde di vista il risultato, cioè il profumo e il gusto finale del cocktail. Della serie: bello e impossibile (da bere). La ricetta perfetta, per concludere, forse non esiste. Ma - ne siamo certi - un mixologist che perde l’equilibrio non fa molta strada.