Nei pubblici esercizi si investe nell’attività

Ristorazione –

Oggi la compravendita di un immobile è rara. Il bar offre meno rischi del ristorante ma non rappresenta più un bene rifugio

Per chi investe, oggi il bar ha più appeal del ristorante. Il motivo è semplice: ha un tasso di rischio inferiore. Le compravendite però sono in calo rispetto a sette otto anni fa e il rallentamento si avverte di più nelle grandi città, mentre in provincia la domanda tiene. È la diagnosi di Alessandro Ghisolfi, direttore dell'Ufficio Studi Ubh (United Business Holding), il network in franchising di Professionecasa, Grimaldi, Rexfin e Assirex che tiene sotto osservazione il mercato immobiliare.
«Il bar può avere la ricevitoria, la tabaccheria e a mezzogiorno si trasforma in ristorante che serve piatti pronti. Tutte queste voci fanno crescere il fatturato e attirano l'investitore - spiega Ghisolfi -. La domanda è vivace soprattutto per i locali vicini a banche, università, uffici e ospedali. È la localizzazione che fa il prezzo. Chi non trova subito un bar da rilevare, a volte è disposto a prendere un ristorante-pizzeria e a trasformarlo in bar». Il prezzo del locale dipende da tanti fattori: l'ubicazione primaria, secondaria o periferica, da quanti anni l'attività è sul mercato, dalla domanda più o meno sostenuta e da variabili immobiliari.
Secondo Tecnocasa, con l'istituzione dell'Ecopass, l'accesso a pagamento per i veicoli, le case di pregio a Milano sono arrivate a costare fino a 14 mila euro il mq. Incidono anche i progetti di urbanizzazione: «A Milano la riqualificazione universitaria alla Bicocca ha provocato l'apertura di numerosi bar - osserva Ghisolfi -. Duemila studenti in circolazione ogni giorno hanno fatto lievitare la domanda. Quando partono piani di sviluppo nelle zone periferiche, i bar sono i primi a crescere sotto il profilo immobiliare, prima dei negozi e dei ristoranti. È accaduto a Torino per le Olimpiadi invernali, a Roma per l'allargamento degli insediamenti universitari, a Napoli con la nascita del centro direzionale».

Quanto vale una licenza

Ma a parte i casi eccezionali, la compravendita di un immobile ad uso commerciale è rara. Più frequente è la compravendita dell'attività. Ma quanto vale oggi una “licenza” di pubblico esercizio con le librerie che servono da bere, i bar che cucinano, gli agriturismi che fanno concorrenza ai ristoranti e le griffe dell'alta moda che sloggiano i caffè dai centri storici? Difficile dirlo. I locali top sfuggono ad ogni regola. Hanno valutazioni misteriose, comunque cifre sempre molto alte. Ad esempio, nei centri cittadini si può arrivare a sei, sette volte l'incasso annuo, in corso Vittorio Emanuele a Milano anche a dieci.

Aumentano gli sconti
Tra i “comuni mortali”, invece, nelle zone semicentrali, in periferia e nei paesi, la crisi si fa sentire. È un mercato difficile e contradditorio, che cambia secondo le regioni d'Italia. Molti vorrebbero cedere l'attività, ma i soldi scarseggiano e pochi comprano: «Chi ci contatta vuole vendere e invece chi cerca vorrebbe affittare - rivela Flavio Biella, direttore di Consultazienda, periodico on line di compravendita di bar, ristoranti e hotel -. Questa è la fotografia attuale. Tutti interessati ma pochi soldi da investire». Franco Della Valle, amministratore di Cogefim, azienda che opera nell'intermediazione di aziende piccole e medie, conferma: «Si stanno ridimensionando i valori, è una legge di mercato, chi vende in un momento di recessione è disponibile a fare sconti all'acquirente. Invito chi è interessato a consultare i siti specializzati per studiare le migliori proposte e ad affidarsi solo a professionisti, evitando il fai da te».

La valutazione dell'attività
Come si valuta l'avviamento di un pubblico esercizio? «Nella ristorazione il valore medio va dal 70 al 90% dell'incasso annuo - osserva Claudio Salluzzo, direttore Epam-Unione del Commercio di Milano -. Nelle trattorie e pizzerie sale al 75-95%. Nei bar tavola fredda e tavola calda può arrivare al 110-130%. L'anticipo in contante è il 30%. Il resto si paga con cambiali o a rate con il “patto di riservato dominio”, una norma contrattuale del Codice Civile. Significa che, con il mancato pagamento di tre effetti, il rivenditore rientra in possesso dell'azienda».
Prendiamo ad esempio un ristorante che incassa 400mila euro l'anno. «Il valore di mercato è circa l'80%, 320 mila euro - esemplifica Alberto Belgeri dello Studio di Lionella Maggi, presidente Fimaa Milano, la Federazione italiana degli agenti d'affari pecializzata in mediazione di pubblici esercizi -. L'acconto è 90-100 mila euro. Il resto, in cambiali senza interessi in “x” anni. Oggi ci sono le “cambiali intelligenti”, da cinque a nove anni, studiate in funzione dell'affitto e del cassetto». Raro incassare cash, in questo caso si sconta il 30% sul prezzo finale. Accade spesso con acquirenti cinesi e russi.

Pochi contratti nei piccoli centri
Prendiamo, invece, un bar che genera 1.000 euro d'incasso al giorno, 360 mila l'anno: può valere 450 mila euro: 100-120 d'acconto, il resto in cambiali da 60 a 72 rate. «Con questa cifra si acquista il ramo d'azienda, la licenza, gli arredi, le attrezzature e l'avviamento - osserva Belgeri -. Se c'è un contratto di locazione in essere che scade, poniamo nel 2017, si subentra con l'articolo 36 che prescrive che, fino al termine del contratto, non si possono fare aumenti sul canone, se non l'adeguamento Istat dell'1,5-2% annuo. Se scade nel 2009, si subordina alla firma di un contratto di locazione ex novo di 6 anni + 6».
E nelle città medio-piccole, che cosa succede in tempo di crisi? «Ci sono tante attività in vendita, circola poco denaro e chi compra spesso ricorre al credito - spiega Cristiano Santi, presidente di Euroimpresa, società specializzata nella mediazione di attività commerciali a Vercelli, Aosta e Novara -. Vanno in porto tre trattative su dieci e spesso si chiude al 30-40% in meno rispetto al prezzo iniziale. L'acquisto è spesso purtroppo visto come opportunità da chi non sa cosa fare. È un errore. Chi compra, deve conoscere il territorio, lo stato del locale, le presenze vicine, l'arredamento, gli impianti a norma, la cantina, l'incasso giornaliero, le spese mensili e fiscali, l'esposizione bancaria, eventuali debiti e magari saper leggere i bilanci». L'era del bar come settore rifugio è decisamente finita.

Rapporto Fipe 2007 sui pubblici esercizi

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