Rubens Gardelli: «Così si diventa il numero uno del mondo»

Dalla cina con furore. È Rubens Gardelli, incoronato a Guanzhou campione iridato di roasting 2017, che svela a Bargiornale come è diventato il numero uno

Conquistare in Cina, nel dicembre scorso, il trofeo di campione del mondo di Roasting (tostatura), competizione del circuito Sca, è stato per Rubens Gardelli un traguardo ricercato con passione e sacrificio e raggiunto alla terza esperienza in gare ai massimi livelli. Dopo il titolo iridato nell’ibrik vinto da Davide Berti nel 2015, Gardelli è il secondo italiano ad inserirsi ai massimi vertici del mondo Sca in una gara tra artigiani del caffè che richiede una profonda conoscenza di ogni fase della lavorazione del caffè.

D’altronde per Rubens il caffè non ha misteri sin dall’età di cinque anni quando inizia a respirare l’aroma intenso dei chicchi tostati nel locale dei genitori aperto a Forlì. Ma nel locale di famiglia non ci resta per molto.

Si trasferisce prima a Firenze, poi a Santa Barbara, in California, dove risiede come universitario. Qui frequenta un bar con  torrefazione annessa, la Santa Barbara Roasting Company e rimane affascinato dai processi di lavorazione e tostatura. Vorrebbe proseguire gli studi a Dublino, ma deve rientare in Italia perché il locale gestito dalla madre è in difficoltà. Prende in mano il timone del locale e per contenere i costi comincia a tostare in proprio con una piccola macchina da 250 grammi. Attraverso il sito Sweet Marias acquista piccole quantità di caffè di diverse origini, scoprendo aromi e sapori fino allora sconosciuti e coronando, a poco a poco (in circa 6 anni) il sogno di diventare torrefattore con un proprio brand. Al  lavoro al banco bar alterna, infatti, lo studio, la ricerca e la lavorazione e tostatura di piccoli lotti di alta qualità che comincia a vendere on line: un’offerta dedicata ai cosiddetti “coffee lovers” con aromi e gusti particolari e tostature differenziate. Oggi l’offerta del suo sito web (shop.gardellicoffee.com) è ampia e differenziata, apprezzata dalla clientela straniera, più aperta al mondo degli specialty, ma con un bacino di aficionados in crescita anche in Italia.

Qual è stata la chiave del tuo successo ai mondiali di Roasting a Guanzhou in Cina?

Un concorrente non sa con quali caffè lavorerà, quindi prima di tutto ho studiato a fondo la macchina, per capire come la materia prima avrebbe reagito al cambio della temperatura, realizzando diversi profili di tostatura e verificandone la correttezza con l’assaggio. Bisogna imparare a rispettare le tempistiche, a non fare errori ed anche a mettersi nei panni dei giudici e capire come valutano le tazze. Mi ha aiutato, in tal senso, il confronto che ho avuto con i giudici a fine gara lo scorso anno: mi hanno dato diversi consigli dei quali ho fatto ovviamente tesoro nelle successive competizioni.

Quali di questi suggerimenti hai seguito maggiormente?

Se come singola origine si deve tostate un caffè abbastanza standard, è importante puntare sulla dolcezza, tostando per un tempo maggiore in modo di fare emergere la caramellizzazione degli amminoacidi e ottenere una tazza rotonda ed equilibrata. È quanto, ad esempio, ho fatto con la singola origine del Mondiale vinto lo scorso dicembre; un caffè coltivato in Cina, nella regione di Yunnan, buono, ma non eccezionale. Per la miscela, da ottenere unendo altri tre caffè, ho applicato una strategia diversa: uno dei tre lotti era un caffè Etiopia lavato dello Yrgacheffe molto buono, floreale e complesso. L’ho tostato per un tempo maggiore perché sapevo che aveva tanto da esprimere utilizzandolo per la creazione del blend in una percentuale dell’80%. Gli altri due erano un Panama Finca La Esmeralda e un caffè cinese naturale che ho combinato in una percentuale del 10% ciascuno.

Durante la gara del Mondiale avrai vissuto tante emozioni. Avresti qualche curiosità o aneddoto che vuoi condividere con i lettori di Bargiornale?

Forse non tutti sanno che l’ultimo giorno di gara i concorrenti possono assaggiare alla cieca i caffè in cupping: ovviamente senza sapere quale sia il loro. La cosa curiosa è che  quello che ho giudicato il migliore ho scoperto essere il mio: una vera esplosione aromatica. E difatti il blend ha guadagnato punti altissimi, medio-alti la singola origine.

In Uganda hai dato il via a un nuovo progetto: puoi raccontarci di cosa si tratta?

Si chiama #MzunguProject e deriva dalla parola “mzungu” che in lingua locale sta per uomo bianco. Il progetto ha preso il via, quasi per caso, in un Paese africano poco considerato dal mondo degli specialty coffee: cercavo un lotto per la mia gara, ma non volevo un prodotto standard, bensì una coltivazione esclusiva a cui applicare il protocollo che avevo in mente. A livello locale ho trovato il farmer grazie a Dison, l’attuale supervisore del progetto, e subito ho proposto di pagare il 50% in più rispetto alle tariffe dei mercati locali a fronte della certezza di avere l’intero raccolto e l’adozione del mio protocollo. Nell’ottobre del 2016 sono andato in piantagione a insegnare il giusto metodo di raccolta e il tipo di fermentazione che avevo in mente. Così un caffè che non avrebbe avuto molto valore, oggi è paragonabile a un Geisha.

Che tipo di rapporto hai instaurato con i  farmers?

Dopo oltre un anno il progetto è cresciuto: i farmers ugandesi sono diventati quattro e pochi giorni fa hanno ricevuto dalla Gardelli Specialty Coffees l’anticipo sulla metà del prossimo raccolto, con il quale potranno pagare le tasse scolastiche dei figli e lavorare con serenità. Il mio obiettivo è non solo produrre un caffè di qualità, ma un caffè che migliora la vita dei coltivatori.

Quale clima hai trovato in Africa?

Ho vissuto in un villaggio con la gente del posto. Non hanno nulla di ciò a cui noi siamo abituati: le strade sono di terra e fango, i tetti di paglia, mancano l’elettricità, i collegamenti, l’acqua corrente. È come fare un salto indietro nel tempo di almeno centocinquant’anni. Non essendoci l’influenza della televisione e dei social media, le persone sono gentili, educate e si aiutano tra loro.

Quali sono i tuoi consigli per chi vuole oggi entrare nel mondo delle microroastery?

Bisogna capire il mercato e individuare il proprio target. Poi è importante sapere assaggiare; a tal fine suggerisco un corso sensory di Sca per l’assaggio in filtro e uno con Inei per quello in espresso. Sulla tostatura ci sono molti libri ed anche dei corsi, ma, ricevute le basi, è un’arte che si affina con la pratica e cioè tostando e assaggiando. Alla fine gli strumenti essenziali per emergere sono i sensi e tanta determinazione.

C’è spazio per nuovi torrefattori?

Il mercato non è mai saturo; c’è spazio, ma bisogna essere bravi. All’inizio occorre  avere pazienza, perché nessuno è già conosciuto o gode di visibilità: nelle prime fasi mi ha aiutato il bar ad ammortizzare i costi. Se si sceglie il mondo degli specialty bisogna essere consapevoli del fatto che nonostante anche in Italia l’attenzione nei loro confronti stia crescendo, rimaranno sempre una nicchia.

Chi vuole crescere deve, dunque, provare ad espandersi in altri Paesi o scendere a compromessi. I miei clienti, ad esempio, si trovano per il 70% all’estero: sono operatori e coffee lover con una conoscenza medio-alta delle varie tipologie di caffè: li sanno non solo apprezzare, ma anche preparare e presentare con criterio.

Sei soddisfatto dei risultati che hai raggiunto come torrefattore?

Sono soddisfatto anche se so benissimo che gli specialty rappresenteranno sempre una minima parte dei consumi. Tuttavia, m’impegno quotidianamente ad allargare gli orizzonti del mio mercato e a ricercare nuovi possibili sbocchi.

Lo scorso dicembre quando hai vinto il mondiale hai lanciato un messaggio ai tuoi clienti e colleghi: qual è stato?

Seguite sempre i vostri sogni e lavorate sodo; non abbandonate a causa dei fallimenti e non prendete scorciatoie.

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