9bar ha 18 anni, con Lattuada bilanci e prospettive dello specialty

Andrea Lattuada
Il difficile compito aprire la strada agli specialty, la formazione di tanti campioni e ora un appello a una formazione di base più accessibile.

I 18 anni sono un traguardo importante ed anche un’occasione per fare il punto della situazione per chi è stato pioniere nel settore, ne ha vissuto le fasi alterne e ha da fare interessanti proposte.

Parliamo della maggiore età di 9bar, scoccata lo scorso 25 febbraio di cui abbiamo parlato con un suo protagonista di ieri e di oggi, Andrea Lattuada. «L’ho costituita con il mio primo socio, Fabio Milani, presso l’azienda che ha contribuito alla creazione del World Barista Championship: Brasilia. Nel 2000 a Montecarlo, Alf Kramer, uno dei fondatori di Scae (l’associazione europea dedicata agli specialty coffee, ndr) e Roberto Pregel, allora responsabile marketing del costruttore italiano, decisero di dare il via a una gara tra baristi a livello internazionale. Pochi lo sanno, la prima idea era diversa dall’attuale, nel senso che era multimarca: tanti costruttori di macchine, ognuno con il suo barista. Delle cinque aziende se ne presentò una sola, Brasilia, e da allora è stato messo a punto il format attuale.

Ma torniamo ai nostri primi passi: io ero l’esperto - il primo in Italia - di specialty, Fabio di bartending e queste furono le due prime anime della scuola. Per attirare studenti ideammo il coffee flair, con il lancio di portafiltri, piattini, zucchero e altri pezzi. Da parte mia formavo i baristi e davo i primi rudimenti di latte art. 

Non fummo la prima scuola rivolta al caffè, ma senza dubbio la prima che parlava di specialty. Nel 2006 a Londra ho fatto il primo corso di formatore certificato Sca - Ast - e le certificazioni hanno preso il via un paio di anni dopo. Nel 2013, dopo la chiusura di Brasilia, ci siamo spostati nell’attuale sede di Rivanazzano (Pavia). Nel frattempo, nel 2011, a Fabio era subentrato Mariano Semino che ancora oggi è mio socio sia della scuola sia della microroastery Little Bean».

Strada in salita. Come sono andati questi primi 18 anni, chiediamo? «Inizialmente è stato molto faticoso - risponde Lattuada -: dovevamo divulgare qualcosa che non c’era. Quando le persone hanno cominciato a capire, abbiamo avuto un discreto successo: eravamo l’unica scuola che faceva quel tipo di attività ed esercitavamo i baristi per le competizioni. I primi campioni li abbiamo formati noi: Francesco Corona, Francesco Sanapo, Chiara Bergonzi, Giacomo Vannelli, Davide Cavaglieri, Marco Poidomani; con quest’ultimo la collaborazione prosegue da 10 anni. È stato bello perché abbiamo visto crescere un’idea, abbiamo realizzato qualcosa che era nell’aria; abbiamo avuto molti studenti stranieri, che finalmente trovavano una vera accademia».

Non fare del caffè un prodotto elitario. Poi gli Ast e le scuole sono diventati numerosi; è stato un problema? «Al contrario: è stato un bene per la divulgazione e la formazione di tanti operatori a livello nazionale - afferma Lattuada -, ma sostengo che non è sufficiente. La ricerca che ogni formatore e ogni azienda italiana oggi fa, deve essere alla portata di tutti: il mondo dello specialty deve trovare un linguaggio non esclusivo, ma inclusivo, democratico, che permetta a chiunque di avvicinarsi e non spaventarsi davanti a quello che facciamo. La pandemia è arrivata forse nel momento di maggiore interesse da parte sia del barista sia dell’appassionato. La formazione è proseguita online, ma non è sufficiente, soprattutto per chi deve operare al banco bar. Oggi l’operatore è focalizzato sul lavoro per recuperare ciò che ha perso e non investe in formazione. Bisognerebbe ricreare attenzione, curiosità, voglia di imparare partendo dai livelli più bassi, facendo capire che la base dei suoi problemi è il prezzo troppo basso della tazzina al bar, che non è sostenibile: tutto è aumentato. Se non si aiuta il barista a trovare questa sostenibilità, sempre meno penseranno a formarsi».

Nuovi format di gara. Diminuiscono anche gli iscritti alle competizioni; come mai? «È un fenomeno che prosegue da alcuni anni, si avvertiva anche prima della pandemia - osserva -. Il livello di alcune gare spaventa: per il singolo barista è insostenibile a livello economico. di tempo per la preparazione, la ricerca del caffè, la costruzione della gara, le prove. Penso sia utile pensare a competizioni parallele, più semplici; so che qualcosa del genere è nell’aria e ne sentiremo parlare presto, perché di persone che hanno voglia di affacciarsi al mondo specialty e di gareggiare ce ne sono tante. Comunque dobbiamo dare una nuova “scossa” al settore, come già ce ne sono state in passato; penso sia giusto fare un cambio di marcia e aiutare i pubblici esercizi ad innalzare la propria operatività. La nostra industria produce il meglio della tecnologia, che al 90% va all’estero; questo significa che qualcosa non funziona, che dobbiamo fare un passo indietro di almeno 15 anni, riprendere argomenti che a noi sembrano scontati, ma per la massa dei baristi non lo sono e portali a un discorso di qualità».

Su la testa. L’ultima domanda è: qual è il tuo appello per l’operatore italiano? «Quello di non lamentarsi - conclude Lattuada -: così facendo si carica solo di energie negative e non ha alcun beneficio. È necessario riaffacciarsi alla conoscenza. A questo proposito, agli Ast dico di fermarsi un attimo: basta con la corsa al “voglio sapere di più”. Dobbiamo trasferire il nostro bagaglio e creare interesse nelle nuove generazioni che nel frattempo sono cresciute e magari hanno bisogno di quello che insegnavamo qualche anno fa. L’obiettivo comune deve essere di portare il settore a un livello globale di base accettabile, buono. Ovviamente porte aperte a chi vuole fare percorsi più esclusivi, ma non limitiamoci a quello».

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