Dagli antichi ricettari le origini di un’eccellenza italiana con più di due secoli di storia. Il resoconto di un seminario tenuto da Fulvio Piccinino alla Campari Academy.
Si sa che il vermouth è uno dei prodotti più antichi della liquoristica mondiale. Nei suoi oltre 200 anni di storia la sua formulazione e il metodo produttivo sono rimasti sostanzialmente invariati ehanno attraversato, senza alcuna pausa produttiva, le varie crisi, dalle guerre al Proibizionismo fino alla fine degli anni Sessanta quando, le mutate abitudini alimentari e di consumo, unite ad una involuzione della qualità, ne determinarono quasi la scomparsa. Sfortunatamente ad oggi non esiste un disciplinare che ne determini la produzione e che lo tuteli da produzioni di bassa qualità, soprattutto al di fuori dell’Italia, ma solo una serie di regole che definiscono il grado minimo e la percentuale di zucchero per le varie tipologie. Ma siamo così sicuri di essere a conoscenza di questo prodotto che è ritornato prepotentemente alla ribalta? Per rispondere affermativamente a questa domanda occorre studiare i testi fra la fine del 1700 fino ad arrivare all’inizio del 1900, quando fu pubblicato il libro in assoluto più conosciuto e menzionato dagli addetti ai lavori, la monografia su “Il Vermouth di Torino” di Arnaldo Strucchi. L’analisi però non si può fermare a questa pubblicazione, infatti è necessario leggere anche i testi del Villifranchi, Marinoni, Sala, Rossi e Cotone (anche se trattasi di copia rivista dello Strucchi), nominati in stretto ordine cronologico, per trarre altre conclusioni su come fosse, una volta, il vermouth. A questi libri si potrebbe aggiungere anche “Il ricettario delle famiglie” di Jean D’Albret che riporta un’importante testimonianza produttiva del vermouth a livello casalingo.
Il colore ambra
La prima evidenza che salta agli occhi è, come si deduce da un testo dello Strucchi del 1907, che il vermouth non fosse assolutamente suddiviso fra bianco e rosso, ma che fosse disponibile in un’unica colorazione, quella dorata tendente all’ambra. Questo colore era ottenuto con lo zucchero bruciato che anche oggi è usato diffusamente e che non rientra nella categoria dei coloranti, come invece lo è il caramello, utilizzato in alternativa o in sua unione per ottenere la colorazione più profonda, che noi definiamo “rosso”. In altre ricette, per ottenere un colore dorato lucente, era invece prevista la presenza di una piccola percentuale di zafferano.
Cosa determinò la nascita delle due tipologie classiche, bianco e rosso? Sicuramente il lancio sul mercato del primo vermouth bianco della storia ad opera di una famosa azienda di Canelli, un prodotto più adatto alle signore, come sottolineava anche la pubblicità apparsa su molti giornali dell’epoca.
Come testimonia anche il libro “Mille Misture” del 1936 di Elvezio Grassi, il bianco ebbe anche un diffuso uso in miscelazione, cosa che poi sarà destinata a scomparire nel Dopoguerra, diventando un monopolio della tipologia “rosso”. Questo lancio determinò una confusione a livello cromatico in quanto esistevano due tipologie di vermouth, una bianca e una dorata carica che potevano far insorgere confusione. È pertanto probabile che i produttori abbiano deciso per una diversificazione dei prodotti più netta “colorando” con zucchero caramellato i prodotti, pratica già usata per amari e liquori.
L’uso del vino rosso
Circa il colore è necessaria un’altra puntualizzazione. Si pensa che l’unico vino utilizzabile per produrre vermouth sia il vino bianco, mentre non esiste alcun vincolo all’uso del rosso, anzi è probabile che inizialmente il colore rosso vivo di taluni vermouth fosse proprio ottenuto mescolandone una piccola percentuale. A dimostrazione esiste anche una ricetta di Luigi Sala prodotta esclusivamente con vino rosso che certifica come storica questo tipo di lavorazione. Un’altra situazione che emerge leggendo le etichette della produzione moderna è legata al fatto che da più parti si reclama l’antichità della ricetta, in alcuni casi riscoperta anche in circostanze fortunose.
Ma leggendo la maggioranza delle ricette riportate dai testi antichi si constata una forte presenza di artemisie, sia absinthium che pontica, che renderebbe troppo amari i profili di questi prodotti, quindi fuori mercato per i delicati palati odierni. A questo si aggiunga la presenza di erbe oggi vietate in buona quantità, per via dell’alto contenuto di alcaloidi, come la fava tonka, il calamo, e in alcuni casi anche di foglie di coca, usate anche in purezza. Dunque è evidente che vi sia la necessità di adattare una ricetta vintage al gusto moderno. E non è un segreto che molti produttori utilizzino una base comune con le spezie classiche che viene poi personalizzata a piacere.
Gradazioni diverse
La produzione del vermouth di alcuni anni fa fu contraddistinta dalla discussa diminuzione di grado, da 16° a 14,5° che fu consentita per tutte le due tipologie, bianco e rosso. Oggi esiste una proposta per riportarla all’origine perlomeno per la tipologia Torino, insieme ad altre regole per la nascita di un disciplinare.Alcuni produttori scelsero di scendere al di sotto di tale soglia, producendo una bevanda aromatizzata a base vino con caratteristiche organolettiche diverse dal vermouth. Ma il vermouth ebbe sempre questo grado? Anche in questi casi i vecchi testi ci dicono che in passato si poteva considerare vermouth anche un prodotto a 12°, ottenuto con vino semplice in cui si ponevano erbe e droghe in infusione, senza fortificazione con alcol. Autori come Marinoni o Sala lo certificano, ma è incontestato che questi prodotti non appartenevano alla tradizione piemontese, che faceva di un prodotto alcolico, almeno 16° o 17°, la sua bandiera, ottenuta sempre con una fortificazione con alcol. Questa pratica poteva essere effettuata prima, fortificando il vino necessario all’infusione, sia successivamente, aromatizzando l’alcol infuso con le spezie. I prodotti leggeri erano realizzati fuori regione, in Toscana. Si trattava di prodotti destinati a scomparire. Infatti il Vermouth di Torino con una gradazione superiore, zuccherino e aromatico, debellerà le produzioni toscane e francesi che avevano provato invano a seguire le orme piemontesi. Questo permette anche di chiarire come il vermouth non sia stata sempre una questione piemontese, ma in genere europea.
Il battesimo di Torino
In conclusione, sicuramente l’imprenditoria piemontese finalizzò un processo produttivo conosciuto, di cui non era l’esclusivo conoscitore, come dimostrano i testi di Villifranchi e dell’Ottavi, ma che a Torino, come dice Sala e poi lo stesso Strucchi, ebbe il battesimo della “rinomanza”. Nel capoluogo piemontese venne infatti perfezionata la ricetta con spezie e Moscato che rese il vermouth un prodotto unico e di successo planetario