A Plaino, alle porte di Udine, Beppe Burello e Raffaella Bianchi propongono al Samarcanda oltre 400 specialità birrarie in bottiglia, alcune introvabili. Ambiente underground ricavato con il riutilizzo di pezzi di storia raccolti nei mercatini.
Dolce o amara? È la prima domanda che Beppe Burello rivolge al cliente che quando chiede una birra brancola spesso... nel luppolo.
Considerando che, al Samarcanda, le etichette sono più di 400, la scelta guidata risulta vincente e spesso il titolare si accomoda a uno dei tavoli per suggerire, su richiesta, un’IPA, una Stout o un’altra delle specialità comprese nei due raccoglitori che costituiscono la carta delle birre, uno dei quali è riservato alle rarità o speciali. Ci troviamo nell’immediata periferia di Udine, a Plaino, dove il 9 giugno di tre anni fa, un capannone al grezzo, censito come rimessa, dopo due anni di lavoro, Beppe Burello e Raffaella Bianchi hanno trasformato in una birreria che porta il nome di una celebre città uzbeka e dell’omonima famosa canzone di Roberto Vecchioni. Il locale si trova, dunque, fuori dalle rotte trafficate ma la scelta, ci spiegano, è voluta per selezionare un pubblico di estimatori che si muovono per passione e non per caso.
Qui la birra “arreda”
Il Samarcanda è un ambiente decisamente underground dove gli arredi sono pezzi di storia, raccolti nei mercatini, riciclati e portati a nuova vita, come il banco bar, rivestito con le assi di uno tavolo austriaco ottocentesco e la vecchia poltrona in pelle, sistemata davanti alla stufa che, da sola, riscalda il locale in maniera egregia. Alcune sedie erano parte della sala d’attesa di uno studio medico, altre hanno trovato nuova vita proprio qui. Alle pareti ritratti di cantanti disegnati con uno stile da “graffitari”, e il manifesto anni ’40 della birra San Giusto di Trieste, che riporta sul retro lo slogan inneggiante ai benefici della birra, dove se ne raccomanda l’uso come corroborante negli ospedali e per le donne incinte e depresse. Il resto dell’arredamento lo fa la birra, in ogni sua forma, accessorio e gadget.
Ulteriore particolarità è la colonna sonora: bandita ogni tecnologia digitale, il suono proviene esclusivamente da casse collegate a un piatto dove girano i vinili del titolare. Ma veniamo al dunque: al Samarcanda si beve solo birra, salvo qualche bottiglia d’acqua e un paio di bibite destinate ai neopatentati che, a turno, trasportano gli amici. Ci sono 5 spine di cui una sola è fissa, la Hell tedesca, scelta perché di facile bevuta. Le altre sono a rotazione, generalmente c’è sempre una rossa stile belga, una IPA, una Stout e una “introvabile”. Ma la scelta infinita è costituita da un mare di bottiglie, in continuo aggiornamento, gelosamente coccolate dentro a decine di frigoriferi e provenienti da Belgio, Germania, Inghilterra, Austria, Scozia, Irlanda, Olanda, Danimarca, Svezia e Stati Uniti. Sono frutto di ricerche accurate, viaggi e qualche suggerimento dai clienti più attenti. L’Italia è presente con una selezione molto ristretta: l’intera gamma del birrificio bergamasco Elav e qualche chicca a rotazione.
I nuovi arrivi annunciati su FB
I gradi delle specialità in carta vanno dai 0,5 ai 41 della Sink the Bismarck, che è anche la referenza più costosa (160 euro per una 33 cl.). In ogni caso il prezzo di entrata è molto basso in quanto si parte dai 3 euro. Samarcanda passa inoltre le proprie ricette ai microbirrifici esterni. È recente la produzione di Pearl Harbor, una cotta realizzata impiegando luppoli americani e giapponesi che è “evaporata” in appena due settimane. La proposta food e ridotta al “minimo sindacale” proprio per non distrarre l’attenzione del cliente sulla birra: solo alcuni panini imbottiti gluten free, realizzati con ingredienti di alta qualità, taglieri misti e patate fritte. Anche la promozione non ammette distrazioni, oltre al passaparola c’è solo la pagina Facebook dove comunicare i “nuovi arrivi”. Uno dei motti del Samarcanda? “Esiste la birra perfetta per chiunque: basta solo trovarla!” Foto di Giuseppe Burello.