Oscar Quagliarini, il bartender “in canottiera e tattoo” diventato una star della mixability parigina ci svela i suoi locali preferiti e la sua ricerca. E lancia qualche frecciata ai colleghi italiani
Non bastano una canottiera e un metro quadro di tatuaggi per fare un personaggio. Ci vuole autorevolezza, quello strano ingrediente che ti porta a voler ascoltare chi ce l'ha. Perché sai che potrai non trovarti d'accordo, che magari ti farà girare le scatole ma che, alla fine, avrai portato a casa qualcosa di prezioso: idee, riflessioni, domande o un po' di sana rabbia che ti spinge a fare meglio. Come tutti quelli che ce l'hanno, Oscar Quagliarini l'autorevolezza se l'è conquistata sul campo, macinando chilometri, bussando a porte che altri nemmeno sanno che esistono, sperimentando come un pazzo. La sua smania di conquistare il cliente ha finito per conquistare anche i colleghi bartender, che lo hanno eletto per acclamazione una delle voci più autorevoli della “rinata” mixability parigina. Bargiornale gli ha chiesto l'elenco dei cocktail club parigini “da Oscar”. E, già che c'era, qualche pensiero sull'Italia. Le risposte? Quagliarini-style, ovviamente. Leggete un po' cosa ne è venuto fuori...
C'è un momento simbolico per la “rivoluzione francese” della mixability?
L'apertura dell'Experimental Cocktail Club, primo locale di una serie creato da tre ragazzi francesi, a cui ha fatto formazione e avviamento allo staff un americano ca**uto che gli ha dato l'impostazione double shake (shakerata con due mani, ndr) e triple strain (mescolare tre cocktail in contemporanea, ndr). Trascurando però un aspetto fondamentale: la diluizione del drink. Fino ad allora Parigi era una città di bar storici: Harry's New Bar, Le Forum, l'Hemingway Bar con Colin Peter Field.
L'Hemingway Bar sembra ancora un ragazzino...
Per la personalità forte del bartender che c'è dietro: ricordiamoci che Colin Peter Field è stato il primo, col libro “Cocktail of the Ritz Paris”, a proporre i Twist on classic. Guardatevi il libro e “abbozzate”, min**ie lente...
Quali sono i bar protagonisti di questa “nouvelle vague”?
Il primo speakeasy, il Candelaria, e i successivi: Le Ballroom, Moonshiner e Little Red Door. Poi c'è il Maria Loca, il primo cachaça bar. Poi il Grazie e il Gocce, dove ho lavorato. Grazie è la prima pizzeria a cui è stato unito il concetto di cocktail bar, Gocce il primo tapas bar simil spagnolo con un cocktail bar alle spalle.
Perché Grazie e Gocce hanno funzionato?
Sono stati concetti nuovi, con idee nuove. Tutti i locali aperti a Parigi sono stati creati da gente che era passata nei vari Experimental, Prescription, Curio Parlor, dove lo stile di drink e il metodo erano più o meno gli stessi. Grazie e Gocce, invece, sono stati aperti con un'altra mentalità: carta bianca su tutto e nessun limite alla fantasia. Il Gocce ha un menu diviso in tre parti, con categorie nuove come “Don't follow me”(drink a base di profumi), “I walk after the dark “(drink a base di fiori e spezie) e “I dream but I don't sleep” (lo stravolgimento dei grandi classici).
Punti di forza e lati deboli della scena parigina.
Il bello di Parigi è che la gente è curiosa, segue la moda ma è molto attenta anche al gusto. Il limite è nella mentalità. Tutti si sono abituati allo stile Candelaria o Experimental. La fortuna di Grazie è merito di un nuovo approccio: non più solo concentrato sul bar a fianco o sul bartender che viene a farti visita, ma sul cliente.
Così è arrivato il successo.
Parliamo della tua ricerca sull'arte profumiera? L'hai applicata a Parigi? Con quali riscontri con i clienti?
Ho iniziato sperimentando una soluzione idroalcolica a base di materia prima secca o fresca in base all'ingrediente. Ho ricreato due profumi di Guerlain: Shalimar e Samsara. Mi piaceva il principio base del profumiere Guerlain: l'overdose. Poi sono passato a fare delle visite al laboratorio di Annick Goutal, col quale ho fatto anche un evento lancio della nuova acqua di colonia Eau de Monsieur; sono stato a Grasse a visitare Robertet, uno dei più grandi produttori di olii essenziali e aromi a livello mondiale. Poi ho continuato lo studio, capendo come funziona un profumo, le note di testa, di corpo e di fondo, la selezione degli ingredienti; tutto sempre in maniera totalmente naturale, senza usare olii essenziali - troppo facile - o aromi, ma creando tinture madri home made. Il profumo non lo uso come ingrediente del drink, ma come fosse una entrée. E i clienti sono affascinati. Non uso gli ingredienti che poi metto nel drink, ma degli ingredienti correlati che creano un continuum con il drink o un contrasto.
Su che genere di drink stai lavorando?
Continuo sulla profumeria, sul discorso di ingresso al drink; sto lavorando molto su sode o acque naturali home made, sulla liquoristica naturale, sempre fatta in casa, e sulla neurogastronomia, su come la vista sia un senso sopravvalutato. Ultimamente lavoro con combinazioni di ingredienti azzardate, ma anche con drink molto semplici, 2 o 3 ingredienti al massimo e quasi senza decorazione, perché gioco molto sul discorso olfattivo e di gusto puro.
Milano ha le carte, e gli uomini, per diventare un riferimento sulla scena internazionale?
Sono tornato a Milano dopo tre anni. Nel frattempo sono stato in West Africa, Messico, Singapore e Francia. Ovunque ho incontrato colleghi più easy. Ma soprattutto tanto impegno di tutti nella ricerca, e non solo il voler seguire la buena onda, la moda del momento. È vero che Milano è la città della moda, ma io proverei a fare qualcosa di personale, non a scimmiottare gli altri. A Parigi, come in Messico e addirittura in Africa, ho trovato gente con un proprio stile, che creava e seguiva la propria onda. Io ho avuto la fortuna e un curriculum che mi hanno permesso di viaggiare. Ho sempre viaggiato molto. Anche in vacanza le prime tappe per me erano i mercati locali, le bevande tradizionali, la ricerca di un gusto nuovo, cose che mi hanno sempre ispirato molto. C'è gente valida a Milano, molto; però manca una piccola spinta, più gente con personalità. Apprezzo il Pravda, un vodka bar che ha sempre creduto in quello che faceva anche in un momento in cui esistono bar che non servono vodka: dico “che grandi che siete”. Lavorano “a cannone”, perché hanno personalità. Altro posto che apprezzo, anche se son contrario ai nuovi speakeasy, è il Jerry Thomas, perché ricalca lo stile degli speakeasy veri di una volta: locale strapieno, prenoti ma puoi stare al banco o in piedi, fumo, alcool e musica. Ha personalità, perché è gente che ha fatto una scelta seguita da uno studio e una passione che va avanti da un sacco di anni. Per il resto oggi sono tutti professori, tutti che fanno master, tutti che dicono di essere i migliori. Io sono uno che fa quello che fa perché amo i clienti e odio i bartender e i mixologist. Lo studio che continuo a fare lo faccio per me e per i clienti, non per far vedere al resto dei min**ioni dove sono arrivato. Questo è uno dei motivi per cui quando mi chiedono di fare master sull'arte profumiera applicata ai drink in Italia dico di no. Rispondo: piuttosto venite al bar dove lavoro, fatevi un drink e se avete curiosità me le chiedete ed io ve le racconto. Vi racconto il mio viaggio, non mi metto dietro una cattedra o dietro un bancone col fare di uno che sa tutto o di un professore. Se avessi voluto fare il professore o avrei finito l'università. Alla fine sai che vi dico? Il bartending italiano mi fa un po' di tristezza
Sei un grande. Ti stimo
Erano tempi che non sentivo una cosa saggia come quello che hai detto.Ti rende l,onore e ti auguro sempre buona fortuna nelle
tue ricerche e lavoro.ciao