Atmosfera retrò per Argot

Un po’ salotto della nonna, un po’ cantina in cui andare a suonare, l’Argot di via dei Cappellari a Roma è più che altro una chicca per pochi intimi, in cui si beve bene, si ascolta musica dal vivo e si fanno le ore piccole seduti su divani e poltrone antichi o di recupero. In ordine alfabetico, Francesco Bolla, Gianluca Melfa e Gabriele Simonacci sono i tre bartender che hanno dato vita a questo locale, aperto a novembre 2014 e già noto da tutti i barflier della città.
Un’avventura, come ci racconta Gianluca Melfa, che è iniziata vari mesi prima, quando hanno trovato il locale. «Ci abbiamo impiegato oltre 8 mesi per arrivare al giorno dell’inaugurazione, fra permessi e lavori è stato un percorso a ostacoli». Aver scelto come location una cantina a due passi da Campo dei Fiori, ha infatti vantaggi e svantaggi. Indubitabilmente la posizione è fra i vantaggi e consente di richiamare non solo avventori italiani, ma anche molti stranieri (specialmente americani), che arrivano dai vicini alberghi, tante volte su consiglio dei concierge. Melfa porta l’esempio dell’attore Owen Wilson, che pochi giorni prima era approdato quasi all’ora di chiusura con una truppa di amici al seguito. «E che fai, li cacci via?», scherza.
Il vero problema è stato mettere a norma un locale sottoterra, creare un sistema di aerazione adeguato per ospitare i clienti e una sala anche per consentire loro di fumare. «Nell’avvio attività avevamo dichiarato la gastronomia, per preparare aperitivi e snack da cocktail, cosa che all’inizio abbiamo fatto con un certo successo, poi per un problema di permessi l’abbiamo dovuta sospendere. Pensiamo di ricominciare da settembre. L’unica grande fortuna è stata che prima di noi qui c’era un’associazione legata al teatro, che aveva anche il permesso di somministrazione degli alcolici», racconta Melfa.
Prendendo spunto dalla precedente destinazione d’uso, anche l’Argot si è connotato come associazione. Un po’ per ovvi motivi fiscali e per l’assenza di vincoli sugli orari di chiusura, ma anche per una sorta di trait d’union culturale, che è passato dall’anima teatrale a quella musicale, con buona pace dell’Arci di cui fanno parte. Quasi ogni sera, infatti, qui c’è una band che si esibisce. «In inverno i concerti iniziano intorno alle 23,30. Grazie al fatto di essere sottoterra non abbiamo problemi di orari neanche con il vicinato».
Simone Bacchini è il direttore artistico, che ha messo in piedi un cartellone a base di jazz, manouche, sudamericano rivisitato, purché acustico. «E alcune delle band che hanno suonato qui grazie a noi si stanno facendo conoscere».
Secondo Melfa, è proprio la musica che ha dato una marcia in più a questo locale, in un momento storico in cui di concerti live in città ce ne sono davvero pochi e ancor meno nel dopocena. Peraltro questo consente anche di avere un ricambio sugli avventori, come sottolinea Melfa: «In prima serata ci sono quelli che arrivano per la musica live, poi arriva quella che chiamiamo la gente della notte, che vuole concludere la serata da noi».
«Gli americani dicono che non sembra di stare in Italia», sostiene il patron, eppure quei mobili della nonna (alcuni davvero di famiglia) e quei bicchieri vintage parlano tanto della storia nostrana: «Peccato che sia dura mantenere l’assortimento di questi ultimi , fra quelli che si rompono e quelli che ci rubano perché sono troppo belli», ammette.
E in maniera estremamente italica, i tre bartender per metter su l’Argot hanno fatto riferimento all’intero albero genealogico di ciascuno. Il papà di Gianluca, avvocato, si occupa della parte legale; l’architetto Olimpia Riccardi, madre di Gabriele, ha curato l’interior design del locale e ha seguito i lavori; il fratello di Francesco, lo scenografo teatrale Gianluca Bolla, ha pensato e costruito con pezzi di recupero il bellissimo bancone e l’originale bottigliera. Solo un appunto su quest’ultima da parte di Gianluca: «Ci piace moltissimo, ma limita il numero di bottiglie che possiamo tenere in esposizione, al massimo un centinaio. Questo ci rende particolarmente selettivi, ma forse alla fine è un bene».

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