Oscar Quagliarini: «Raccontiamo ai giovani il lato oscuro del bar»

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Oscar Quagliarini visto dall'illustratore Sergio Gerasi
In libreria A letto con gli spiriti, il libro-diario di Oscar Quagliarini. Che vuole lanciare un messaggio: «Questo mestiere può generare anche sofferenza, se si accompagna l’ambizione a una ricerca di energie senza filtri. Parlo di alcol, parlo di droghe. Ma io non sono arrivato dove sto grazie a droga e alcol, ma perché ero ossessionato dal volerci arrivare»

«L'umanità ha l'esigenza di creare regole per poi infrangerle. E questo rende l'umanità un tantino sciocca, ma anche magnifica»

La citazione qui sopra è tratta delle conclusioni a cui giunge Mark Forsyth nelle sua Breve storia dell’ubriachezza, divertente viaggetto letterario dalle bettole dei Sumeri ai miti alcolici egizi, per finire nelle taverne tanto care a Ivan il Terribile e nei saloon del vecchio West. Una bella storia del bere, raccontata con la giusta leggerezza da un ironico linguista e scrittore britannico.

Di regole infrante e di "umanità sciocca, ma anche magnifica" si intende parecchio Oscar Quagliarini: ne ha vista tanta, e intanto ha scontato su se stesso gli effetti degli eccessi. Ha messo (quasi) tutto in un libro, A letto con gli spiriti (che esce oggi per Tecniche Nuove). Anche questo un viaggio, stavolta nel dark side del mondo dei bar e della notte, una biografia scomposta di un bartender scomposto altrettanto, uno dei più visionari, discussi e controversi della nostra epoca. Ci sono i cocktail e i locali, certo, ma anche notti insonni, tanto dolore, pianti, e poi tatuaggi e relazioni turbolente, e ancora dolori e panacee poco ortodosse.

Un diario notturno pieno di emozioni e verità crude

Classe 1978, bartender dal 1997, Quagliarini ha iniziato in un posto di provincia e ha finito col viaggiare in Spagna, Francia, Messico, Africa Occidentale, lavorando e collaborando con i grandi. Forse non ha bisogno di presentazioni, per la bar industry. Di sicuro ha sentito il bisogno di lasciar sedimentare il suo diario notturno, per anni, lui che soffre di insonnia da sempre. Lo ha trasformato in un libro-verità, un flash back dal 1999 ai primi anni '10 del nuovo secolo. Da un flusso di ricordi emerge il quadro di una vita da bartender segnata dagli eccessi, dal consumo sfrenato di alcol e droga in parallelo ai successi professionali. Con l'intento - anche - di sensibilizzare e mandare un messaggio positivo.

«(...) oltre a essere bravo professionalmente occorre far divertire le persone e divertirsi sul lavoro. Mantenendo la qualità. Si può fare senza fare i pagliacci e shot con le ragazze»

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«Alle nuove generazioni che entrano nel mondo della notte con l’idea di farne un lavoro, vorrei dire questo: che non dovete fermarvi a guardare solo quello che vi sembra figo o raccontato come figo. E noi non dobbiamo dirvi solo che è tutto figo. Fatevi spiegare e raccontare che questo mestiere può generare anche sofferenza, se si accompagna l’ambizione di voler arrivare a una ricerca di energie senza filtri. Parlo di alcol, parlo di droghe. Ma io non sono arrivato dove sto grazie a droga e alcol, ma perché ero ossessionato dal volerci arrivare».

Tu da tempo parli della tua esperienza con trasparenza. Per molti, il consumo di alcol e droghe rappresenta il grande “non detto” della bar industry.

Sì, perché tanto non ne parla nessuno, non è neanche semplice parlarne. Io, che a 48 anni sono ancora come ero, con i capelli tinti di blu e le buffalo, della bar industry non sopporto molte cose. Ma la vera merda del bar, della quale non parla nessuno, è tutto quello che gira dietro. Il consumo di droga, specie di cocaina, è più diffuso di quello che si crede. E l’alcol rimane: io ero arrivato a bere un litro di gin a sera».

Come far capire ai ragazzi che vogliono fare il mestiere del bar oggi che devono approcciarlo da appassionati del bar e non… da appassionati di alcol?

«Secondo me andrebbe organizzato qualcosa a livello di formazione. Proporre un corso in cui si fanno vedere le cose come stanno, no? Cosa incontri nel bar? Questo, questo e quest’altro. Preparati! Una lezione in cui far raccontare quello che succede davvero da chi ci è passato, da chi ha affrontato dipendenze dalle sostanze o ha dovuto subire interventi per l’abuso di alcol. Una terapia d’urto. Perché se guardi in faccia queste cose e i loro effetti, ti aiuta a immunizzarti per tutta la vita».

C’è un passaggio nel tuo libro, di luglio 2011, nel quale appunti una cosa nel tuo diario notturno: “Che disastro. È morta Amy Winehouse. Genio e sregolatezza troppo spesso viaggiano insieme”. La sregolatezza è proprio necessaria per la creatività?

«È un terreno fertile, pare brutto da dire ma ne sono convinto. C’è un legame tra le due cose, ma attenzione: non per forza la sregolatezza è circondata da alcol e droghe. Quelli che “si sfondano” nel mondo del bar non sono geni. I tossici del bar non concludono un emerito. La sregolatezza che intendo io è l’apertura mentale, che ti fa vedere davvero le cose e ti fa funzionare in qualsiasi ambito creativo. E che ti dà gli strumenti per creare, appunto»

Perché hai sentito il bisogno di scrivere questo libro?

«Perché è un momento molto particolare. Il percorso che sto facendo sta tirando fuori tante cose di me, in primis questa dualità di persone: da un lato il personaggio che la gente deve vedere, l'anarchico punk contro tutti. E invece la persona che è Scarra, appunto, che era quello dei 19-20 anni. Grazie alla sobrietà e al percorso psicoanalitico che sto facendo, stanno riemergendo tante cose che ho perso negli anni e persone che ho coinvolto e che senza volerlo ho fatto soffrire. Ho voglia di affrontare un po' tutti i demoni del passato. E voglio intanto trasmettere quel messaggio importante ai ragazzi più giovani».

Cerchi anche redenzione?

«Madonna, sì... cerco il perdono. Non di tutte le 1200 persone con cui dovrei parlare per sistemare le cose che ho combinato, non sarebbe possibile...».

Di chi in particolare?

«Di Zoe, nome fittizio usato nel libro di una donna che mi è rimasta accanto per 15 anni e ora non mi vuole vedere nemmeno di striscio. E della Roby, un amore parigino nato come tra adolescenti, come lo scoppio di una bomba, e durato 10 mesi intensissimi. Lei mi ha salvato da un periodo brutto, quando chiudevo gli occhi ai semafori per farmi ammazzare. Questo non l'ho nemmeno scritto nel libro».

«Un sabato sera ho detto basta»

Che cosa ne è stato del progetto di Gocce, a Senigallia?

«L'ho venduto, dopo averlo tenuto circa un anno. Avrei dovuto aprirlo con due soci, che si sono sfilati prima dell'apertura. In quel periodo, rimasto solo, ho avuto un burnout che mi ha ributtato nei ritmi di bevuta che non potevo permettermi. Un sabato sera ho detto basta».

Ora che progetti hai?

«Sto riaprendo il laboratorio che avevo una volta, dove preparo prototipi di distillati, liquori e profumi. Faccio una decina di giorni al mese a Parigi, lavoro come naso per La Bottega e come consulente per aziende che hanno bisogno di aiuto nell'ideazione di prodotti».

Niente locali, ma questo settore resta il tuo terreno di gioco.

«Niente locali, ma il bar è proprio un qualcosa che ho dentro. Pensa che solo 14 anni fa ho scoperto una cosa incredibile, che riguarda mio nonno. Quando ero ragazzo mia madre non mi faceva quasi mai incontrare il nonno, forse perché aveva capito che io ero... uguale a lui. Quando finii su Glamour, nel mio periodo parigino, lei recuperò delle foto di nonno e me le portò. Su quelle foto bellissime, in bianco e nero, vidi quest'uomo alto 1 metro e 96, magro come un chiodo, con nasone gigante e capelli all'indietro, stempiato come me ora. Uguali. Lì mi confessò che lui era... un barman! E anche che suo padre - mio bisnonno quindi - aveva un bar di proprietà nella zona del Quadraro (a Roma, ndr). Me lo avevano sempre nascosto, pazzesco. Anni passati a chiedersi da dove veniva questa mia passione per il bar, ed ecco qui. Forse io sono quasi quella roba lì».

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