A livello generale il settore si conferma uno di quelli meglio in grado di resistere alla crisi. Ma al suo interno non mancano scossoni e piccole rivoluzioni. Nascono bar e ristoranti “ovunque”. Perde di importanza la tradizionale distinzione tra home e away from home
Non solo non c’è più l’horeca di una volta. Ma, in prospettiva, rischia di non esserci più nemmeno l’horeca, almeno per come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. È la tesi sostenuta da Luca Pellegrini all’annuale convegno sul fuori casa organizzato dalla società di ricerche TradeLab, di cui è presidente, intitolato “Away from home: quale futuro? Non chiamiamolo più Horeca”.
Il motivo è presto detto: i confini tra il mondo dei consumi domestici e quelli fuori casa sono sempre più sottili. E il fuori casa, uno dei settori che si sono dimostrati meglio capaci di resistere alla crisi, attrae un numero crescente di operatori, anche di altri settori. Pronti a “sfruttare” la grande capacità di attrazione che il cibo ha dimostrato di avere.
«Il fuori casa - afferma Pellegrini - ha registrato una grande tenuta. Il 2011, nonostante il calo dell’ultimo trimestre, si è chiuso in leggera crescita. In generale, le persone tendono a ridurre la spesa pur di non rinunciare a uscire. E questo è vero soprattutto per i single e i giovani, che sono i veri pilastri del fuori casa. I giovani, da soli, valgono un terzo del mercato».
Tante nuove insegne
«Il fenomeno più evidente - afferma Pellegrini - è l’esplosione dei punti di consumo. Tante le cause: la liberalizzazione, il boom del vending, l’ibridazione delle formule». Quest’ultimo è forse l’aspetto più innovativo: «Da un lato gli operatori dell’horeca hanno cominciato a entrare nella gdo: è il caso per esempio di Starbucks, che oramai ricava il 10% del suo fatturato dalla vendita nei supermercati dei suoi prodotti (caffè, gelato, energy drink ecc.). Dall’altro, le aziende del food si dedicano sempre di più al fuori casa: Ikea, per esempio ricava quasi il 5% del suo fatturato dai ristoranti interni, senza contare il cibo d’asporto. Carrefour Planet permette di consumare all’interno del centro commerciale. E non escludo che, in futuro, operatori come Leroy Merlin passino dall’angolo con le macchinette automatiche all’idea di un vero bar all’interno del punto vendita come strategia per “allungare” la permanenza dei clienti nei propri negozi». Gli esempi di bar e/o ristoranti in esercizi commerciali “altri” sono sempre di più: da Fnac a La Feltrinelli, per non parlare delle food court all’interno dei grandi magazzini, come Harrod’s o La Rinascente, o di Eataly, modello fondato e costruito sull’integrazione dell’offerta di cibi e bevande per il mercato domestico e il fuori casa. «Del resto - spiega Pellegrini - i primi grandi magazzini come Bon Marché, nell’800, avevano al proprio interno dei ristoranti».
Un bar in banca?
Pellegrini non si stupirebbe di veder nascere bar e ristoranti in nuove superfici commerciali. Non solo i negozi alimentari, come dimostra il caso delle panetterie e delle macellerie diventate bar e ristoranti. Anche le grandi insegne della gdo. O attori totalmente nuovi, come le banche: «Perché le grandi filiali non mettono al proprio interno un caffè - si chiede -? Potrebbe essere un servizio aggiuntivo apprezzato». Con addirittura due possibili declinazioni: «La cosa più semplice sarebbe mettere un bar che soddisfi la semplice esigenza di servizio. Ma potrebbe, se ben progettato e ben gestito, diventare addirittura un elemento capace di attrarre nuova clientela, puntando sulla sua capacità di offrire un’esperienza di qualità in un ambiente insolito». Insomma, c’è spazio per chi vuole aprirsi alle sperimentazioni.
Liberalizzazione e fisco
Altri due elementi che stanno modificando il panorama dell’horeca sono le liberalizzazioni e il boom del vending.
«Per effetto della liberalizzazione e della crisi sono nati molti nuovi locali - spiega Pellegrini -. Tanti che hanno perso il lavoro si sono buttati sul bar, credendolo un business facile. Quanto al vending, è favorito dalla sua economicità e dalla capillarità della presenza».
Risultato: si moltiplicano i punti di consumo, ma la torta da spartirsi resta quella. «Questo pone una grande sfida all’industria, che si trova a dover fornire le stesse quantità a un maggior numero di attori - afferma Pellegrini -. Occorre da un lato ripensare a formati e packaging, dall’altro puntare a una distribuzione molto più efficiente. L’industria e la distribuzione dovranno mappare con molta maggior efficienza la rete dei punti di consumo e scegliere chi servire e come».
Un ultimo elemento che potrebbe rimescolare ulteriormente le carte è la lotta all’evasione fiscale. «Se la tendenza dovesse diventare permanente - afferma Pellegrini - potrebbe mettere in difficoltà molti esercizi marginali e di conseguenza aprire nuovi spazi allo sviluppo delle catene».