Se c’è qualcosa di nuovo, interessante, di tendenza, controverso o utile nel mondo del bar, è molto probabile che sia passato o passerà sotto gli occhi, e quindi per il parere, di Danil Nevsky. Cocktailman, come è noto sui social, è al tempo stesso comunicatore, mentore, ambassador e soprattutto bartender, noto per il contributo infaticabile che fornisce al comunità grazie al suo sito Indie Bartender, per la sua comunicazione senza filtri e per la sua infinita passione per l’universo del bancone. È lui l’ospite della nuova puntata di Off the Record.
Sei forse il comunicatore più conosciuto nel settore del bar. Come giudichi la qualità della comunicazione della industry?
Orrenda. Credo i bartender siano molto a proprio agio quando sono dietro al banco, ma quando si trovano dall’altro diventano timidi, non sanno come comportarsi, è quasi triste.
Quale può essere uno dei problemi principali?
Non si ascolta più, si aspetta il proprio turno di parlare. Quindi non c’è dialogo, e poi davanti alla telecamera non ci si sbilancia mai, l’industria diventa una stanza piena di eco, di lamentele non costruttive.
«è più facile chiedersi perché gli altri stanno avendo successo (e magari attaccarli) piuttosto che imparare come mandare correttamente una mail»
Come se gli altri non esistessero, in un’industria che invece parla di inclusione e ospitalità.
Esatto, è una continua ricerca di conferme per il proprio ego, e soprattutto i bartender dimostrano che è più facile chiedersi perché gli altri stanno avendo successo e magari attaccarli, piuttosto che imparare come mandare una mail correttamente e in tempo, o sforzandosi di migliorare nella vita di tutti i giorni.
Allora cosa serve per cambiare le cose?
Un buon esempio, ed è uno dei motivi per cui faccio quello che faccio. Di certo non sono Gesù, ma faccio ogni giorno un tentativo per stimolare una discussione costruttiva e contribuire.
Ci riesci?
Non sempre. Ti faccio un esempio: sul mio sito è disponibile gratuitamente la Bar Bible del Milk&Honey, un contenuto che da solo può fare davvero la differenza anche per bartender già esperti. Non immagini quanto minimo sia il numero di download, perché la pigrizia è una delle piaghe di questo settore.
Nella tua rubrica "My two cents", sponsorizzata da Three Cents, fai finalmente opinione sui fatti salienti dell'attualità nel mondo del bar. Pensi ci sia sufficiente opinione nel settore?
Il giornalismo di settore è pessimo, con tutto il rispetto. Anche Imbibe, che per me era un esempio eccellente e aveva firme molto interessanti, ora non lo è più. A pensarci bene io ho praticamente il monopolio della comunicazione di un certo tipo, e credo dipenda dal fatto che sono pochi a capire cosa davvero vuol dire opinione: non significa solo lamentarsi, significa fare ricerca, raccontare, discutere i pro e contro, cosa succede, condividere.
E a cosa è dovuto questo problema?
Siamo in realtà una comunità molto piccola e ce ne sentiamo spesso responsabili, come se avessimo paura di incidere sul lavoro o sulla vita di qualcun altro con la nostra opinione.
Vale anche per il giornalismo?
Il giornalismo di settore è spinto dai brand, quindi…
Cosa rende un comunicatore credibile, e quindi meritevole di essere ascoltato nella sua opinione?
Opinioni supportate da critica e fonti, conoscenza e competenza. Evidenziare cosa è negativo, ma al tempo stesso contestualizzarlo, cercando delle spiegazioni e analizzandole. E poi prendersi certe responsabilità: sappiamo tutti dei problemi di droga nel settore e si potrebbero fare in nomi di leggende dell’industria che addirittura sono morte per questo. Lo stesso capita per le molestie sul luogo di lavoro.
Sei stato in passato molto aperto circa l'aver sofferto un burnout. Pensi sia un tema ancora poco affrontato?
Penso sia molto difficile, perché è soggettivo. Io sono un workaholic, penso di essere invincibile e in continuazione mi rendo conto di no, pagando e le conseguenze. Ma ci sono modi diversi per soffrirne: c’è chi dice che burnout è quando non ti frega nulla più, altri che è quando sei l’unico a credere in un progetto. Io propendo più per la seconda, ma è diverso per tutti; ci sono anche differenze anche culturali, in Vietnam la gente dorme sul lavoro, in Germania dopo sette ore in ufficio ti mandano uno psicologo. Più in generale, credo non si possano conoscere i propri limiti finché non si toccano, bisogna quasi andare in burnout per capire cosa significa e non cascarci più. A me è capitato tre volte, è come sperimentare sei o sette relazioni tossiche prima di crescere definitivamente.
«I cocktail non sono arte.
La includono, certo, ma essenzialmente sono design.
E noi dobbiamo sentirci
dei designer»
L’ultimo tuo grosso progetto riguarda la creazione di un archivio di menù. Che risorse mancano nel settore a supporto del cosiddetto menu building?
A volte esageriamo con la parola “arte”. Per definizione un artista ha bisogno di creare arte per vivere, non ha un vero e proprio scopo se non quello dell’espressione: puoi venderla, chiaramente, ma non è quella la sua natura. I cocktail non sono arte. C’è dell’arte nei cocktail, ma non lo sono: i cocktail sono design, i designer hanno uno scopo e i cocktail anche, come aperitivo, digestivo, rinfrescante, e al tempo stesso devono essere godibili. Noi dobbiamo essere designer.
Ovvero?
Capire che non possiamo nasconderci dietro espressioni come “sono un artista, faccio quello che voglio”, perché per noi i consumatori sono necessari. I bartender vedono menu, ingredienti e ricette perché non pensano come designer, ma come artisti: paragonano sempre quello che vedono con quello che pensano, ma non hanno idea dei contesti in cui quel singolo drink vive, magari quello specifico cocktail ha senso in quello specifico bar, in quella specifica parte di città. Il contesto è la chiave della discussione perché i bartender possano lavorare sui cocktail meglio.
È un problema di formazione in generale?
Forse sarebbe interessante se i bartender leggessero volumi sul Rinascimento invece di Liquid Intelligence, e se cominciassero a studiare Canva e le sue potenzialità invece di fissarsi sui bicchieri minimalisti.
A proposito di formazione: come descriveresti il livello attuale della professione dei bartender?
Siamo regrediti, penso, ma non in modo lineare. Abbiamo, in teoria, più risorse di quante ne abbiamo mai avute, ma c’è una sorta di paralisi perché ogni singola azienda ha una piattaforma professionale, eppure pochissime sono quelle che poi davvero ci si impegnano. Mancano contenuti tangibili, anche, sembra quasi che sia o troppa teoria o troppa scienza: serve trasmettere concetti applicabili, contemporanei, freschi. E soprattutto pratici: su Indie Bartender abbiamo un tool per calcolare quanto richiedere come compenso per una guest shift o una collaborazione con un brand, per dirne una.
Tra le priorità dei bartender, troppo spesso, rientrano le classifiche di settore, che tu più volte hai commentato. In che direzione pensi stia andando il sistema 50Best? Come far sì che rimanga un ponte di connessione e non di divisione?
C’è una sorta di tribalismo, ed è un problema. Quando i 50 Best vennero introdotti per la prima volta c’era più comunità, più sostegno reciproco. Oggi si supportano solo i propri amici, c’è molta più politica. Va, però, detto che è comprensibile perché i 50 Best possano essere un obiettivo, in fondo anche il bartending può rischiare di diventare un lavoro routinario, per cui uno stimolo in più fa bene.
Se avessi la possibilità di strutturare un metodo o una classifica di valutazione dei bar, come pensi dovrebbe funzionare?
Rimarrei sulla formula dei 50 Best, ma con la decisione del 2017, con i giudici dichiarati e non anonimi. Farei luce, pubblicamente, su chi viene colto in casi corruzione, senza necessariamente prevedere conseguenze per nessuno, né giudici né bar coinvolti, ma almeno si manterrebbe pulizia. E poi più trasparenza, non c’è chiarezza nemmeno sulle valutazioni: non sarebbe interessante vedere che differenza di punteggi ci sono tra il primo e il secondo, o il primo e il cinquantesimo?
«C'è un elefante nella stanza
del bartending: il consumo
di droga»
C'è qualcosa che proprio non ti piace, del settore?
Il consumo di droga, è l’elefante nella stanza per una marea di motivi. Ogni volta che viene fuori una storia su comportamenti folli, misogini, razzisti, violenti c’è una storia di droga dietro. Vorrei davvero si comprendesse l’impatto che può avere: se lavori sei giorni alla settimana e sei depresso, e al settimo giorno ti sfondi di cocaina, stai solo passando il tempo e nascondendoti, perché la droga si trasforma in un aiuto a non gestire o affrontare i problemi.
C'è qualcosa che invece apprezzi più di altre?
La nuova generazione di bartender. Il Covid ha eliminato molto del cosiddetto middle management, chiunque fosse già noto prima del Covid lo è ancora, come fossimo sopravvissuti; chi era giovane tanto da poter cambiare lavoro, lo ha fatto. Questo ha creato un vuoto di talenti, per cui i giovani adesso sono troppo giovani per essere manager o head bartender: vuol dire che la nuova generazione farà milioni di errori nei prossimi tre-cinque anni come è giusto che sia, ma chi imparerà potrà arrivare a vette altissime.
Hai un messaggio per queste nuove generazioni?
Vorrei trasmettere le due regole che stanno dando forma alla mia vita. La prima, insegnatami dalla mia mamma che non ho idea di dove l’abbia trovata: chi non rischia non beve Champagne. Mi piace perché finora qualsiasi cosa abbia fatto è stato un rischio, che sia stato fisico o economico, anche se non tutto è andato bene come avrei voluto, l’ho fatto e non me ne pento (almeno, di alcune cose meno di altre!). E poi un vecchio detto scozzese che mi ha insegnato il mio primo mentore: “Hai due occhi, due orecchie e una bocca: usale in questa proporzione”.


