Il countdown è già iniziato. Presto le cannucce in plastica potrebbero essere solo un ricordo del passato. Oltremanica, quasi di certo. Il governo britannico ha allo studio una proposta del ministero dell’Ambiente, già approvata per il solo territorio della Scozia, di mettere al bando le cannucce in materiale non biodegradabile nel quadro di una lotta contro l’inquinamento dei mari. Diversi bar e catene di ristoranti del Regno Unito hanno già aderito all’iniziativa rimpiazzando le cannucce in plastica con surrogati in carta e la stessa regina Elisabetta II è scesa in campo bandendo dalle residenze reali, compresi i caffè pubblici, cannucce, bottigliette monouso e imballaggi di plastica per cibo da asporto. Restando in Europa, la Francia non è da meno: nel 2020 scatterà il divieto di produzione, vendita ed anche cessione gratuita delle stoviglie monouso di plastica, e i produttori hanno tempo fino a quella data per sostituirle con articoli realizzati con materie organiche biodegradabili. Misure simili sono state prese anche in Costa Rica, che ha avviato un piano nazionale per liberarsi dagli imballaggi monouso entro il 2021, e in India, il cui governo ha detto stop alla plastica usa e getta a partire dalla capitale del Paese, Nuova Delhi. Una legge che appare come la logica conseguenza di una produzione di rifiuti da record: il Paese asiatico sarebbe infatti responsabile del 60% delle quasi 9 milioni di tonnellate di plastica rilasciate ogni anno negli oceani.
Modelli di sostenibilità
A scendere in campo non sono però solo i governi o le lobby ambientaliste, ma anche colossi del mondo beverage e dell’ospitalità che hanno preso posizione contro l’utilizzo di cannucce e stirrer in plastica tradizionale. Diageo, Pernod Ricard, Bacardi e Marriott International hanno, ad esempio, avviato politiche ambientali mirate a una loro progressiva eliminazione dai loro campi di attività: dagli eventi alla pubblicità. Ad esempio, Pernod Ricard ha reso noto che dopo la rinascita del cocktail c’è stata un’esplosione nell’uso delle cannucce in plastica a livello globale, uno strumento che si usa in media per 20 minuti, ma che può impiegare più di 200 anni a scomporsi in pezzi più piccoli, senza mai disintegrarsi completamente. Emblematica la presa di posizione di Vanessa Wright, vicepresidente sustainability and responsability del gruppo francese: «Sappiamo che questo tipo di plastica sta avendo un impatto negativo sull’ambiente e sugli oceani, per noi è fondamentale fare la nostra parte nell’aiutare a prevenire ulteriori danni».
Parliamo di danni estrememente seri: basti pensare che la plastica tradizionale, il 99% della quale di origine fossile, necessita di tempi di “smaltimento” che vanno dai 100 ai 1.000 anni. E che nel 2050 nei nostri mari ci sarà più plastica che pesci! Lisa Svensson, tra le coordinatrici del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), ha inserito l’emergenza plastica tra le cosiddette “crisi planetarie”. Anche l’Italia sta facendo la sua parte: dopo la messa al bando di diverse tipologie di shopper, va ricordato che il nostro Paese è stato il primo in Europa a vietare i monouso in polietilene nel 2012, ha confermato i divieti di circolazione degli shopper di plastica non riutilizzabili ed ha introdotto lo stop graduale, a partire dal 1° gennaio 2018, dei sacchetti ultraleggeri richiesti a fini di igiene o forniti come imballaggio primario per alimenti sfusi che non rispettino criteri di compostabilità (ovvero di trasformabilità in compost, un concime naturale). L’obbiettivo è cercare di arginare la produzione di plastica tradizionale che, a livello mondiale, è pari a 335 milioni di tonnellate. Una produzione che, nonostante allarmi, campagne e bandi, è però in continuo aumento trainata da settori quali il packaging e e le costruzioni.
Alternative e obiezioni
Un’alternativa ci sarebbe ed è rappresentata dalle bioplastiche, termine che comprende tutte le materie plastiche biodegrardabili e di origine da fonti rinnovabili (ad esempio da amido di mais, tapioca, polpa di cellulosa ecc.). Ad oggi, solo l’1% della plastica prodotta è rappresentata dalle bioplastiche. Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica. Primo perché da diversi studi emerge che la produzione di bioplastiche avrebbe un impatto ambientale complessivo addirittura superiore della plastica tradizionale e secondo perché per alcuni esperti la “cannuccia biodegradabile” si presterebbe a diventare la stampella per perpetuare la cultura dell’usa e getta che è una delle cause dell’aumento della produzione di rifiuti. «A volte il rimedio può essere peggio del male - commenta Marco Omboni, presidente di Pro.mo, Gruppo Produttori di Stoviglie Monouso -. Pensare di passare dai prodotti monouso in plastica tradizionale, polipropilene o polistirene, alle bioplastiche o a prodotti compostabili in acido polilattico e polpa di cellulosa significa, allo stato attuale delle conoscenze, generare un impatto ambientale maggiore. Lo dice uno studio comparativo di Lca consultabile sul nostro sito (www.pro-mo.it) realizzato in conformità alle norme Uni e debitamente asseverato. A conclusioni analoghe è giunto anche un documento pubblicato dalla Environmental Action Germany, organizzazione tedesca no profit, che sfata il mito della bioplastica come prodotto “eco-friendly a prescindere”. Più che ai materiali alternativi, il focus della discussione dovrebbe riferirsi al sistema di raccolta differenziata e di riciclo, dove i livelli di dispersione sono ancora molto elevati. E non mi riferisco all’Italia, che a livello europeo è uno tra i modelli più virtuosi, ma soprattutto alla Cina e ai Paesi Asia-Pacifico che scaricano nei mari il 60% della plastica usata».
Strategie antispreco
«Siamo convinti - continua Omboni - che al di là di scorciatoie mediatiche, piatti e bicchieri in plastica monouso possono e devono essere riciclati. Oggi è pari a poco più di un milione di tonnellate la quantità di imballaggi in plastica riciclati in Italia dal solo CoRePla, più di quanto richiesto dagli obiettivi europei; si deve però continuare a lavorare per elevare il livello di efficienza delle filiere di recupero con il contributo di tutti: industrie, istituzioni, operatori professionali e consumatori. A questo deve affiancarsi una maggiore educazione al corretto utilizzo e contro lo spreco, che Pro.Mo promuove con iniziative come Re-Cipes in collaborazione con la Federazione Italiana Cuochi». Ripensare radicalmente l’economia delle materie plastiche sembrerebbe alla fine la vera urgenza. Anche se non tutti gli “azionisti” coinvolti - dall’industria alle istituzioni - sono in accordo su quale siano le priorità a livello d’intervento e le strategie più efficaci. «La strada maestra - commenta Silvia Ricci, membro del direttivo di Comuni Virtuosi e responsabile campagne (comunivirtuosi.org) - è quella indicata dalla gerarchia europea per la gestione dei rifiuti dove le azioni di prevenzione e di riuso hanno la priorità rispetto a riciclo e recupero ma resta necessario fissare degli obiettivi vincolanti di prevenzione, riutilizzo e riciclo applicabili in particolare ai contenitori per bevande e agli imballaggi industriali. Sino a quando sarà più conveniente per le aziende continuare con i prodotti usa e getta non sarà possibile attivare un programma circolare per la riprogettazione e il riuso della plastica. Non solo, il passaggio fondamentale resta l’introduzione del cauzionamento per i produttori di bevande. Tra le novità del pacchetto di direttive europee in materia di rifiuti e di economia circolare due in particolare potrebbero cambiare le regole del gioco: l’aumento dei target di riciclo e il rafforzamento della responsabilità estesa dei produttori (Epr) che provocherà un ripensamento dei sistemi di raccolta, icui costi, oggi, sono sostenuti per circa l’80% dai comuni al posto di produttori e utilizzatori di imballaggi». La partita per un reale cambio di visione sembra essere solo all’inizio.
Dal monouso al riuso, parla un produttore
Bando al monouso, emergenza ambientale, materiali alternativi. Come vede questi temi chi ha a che fare quotidianamente con i polimeri di origine sintetica? Lo abbiamo chiesto ad Alberto Conti, marketing&style manager di Goldplast, azienda italiana che da oltre trent’anni produce calici e tableware, anche monouso, per il fuoricasa. «Monitoriamo con attenzione le questioni ambientali e siamo convinti che le parole d’ordine per il futuro siano: riciclo, riuso e re-design. Lo conferma anche un recente studio della Ellen McArthur Foundation, la più grande fondazione privata degli Stati Uniti, che fornisce la visione di un’economia globale in cui la plastica, seguendo i principi dell’economia circolare, non diventa mai rifiuto.
Nel settore dell’ospitalità, la richiesta di prodotti o accessori in plastica è in aumento?
Decisamente sì. Le ricerche di mercato proiettano al 2022 una crescita del 5% a valore per il comparto. All’interno di questa macro tendenza registriamo un aumento sia del monouso, sia del biocompostabile. Nel nostro caso, quando parliamo di monouso parliamo di prodotti ad elevata performance, riciclabili al 100% che possono anche essere riutilizzati. Teniamo poi conto che diversi comuni in Italia hanno adottato ordinanze molto severe, che vietano la vendita di bevande in contenitori di vetro e l’utilizzo di bicchieri in vetro per alcolici e analcolici. I calici in materiale plastico rappresentano, dunque, una soluzione “sicura” e di design.
State sperimentando materiali alternativi alla plastica tradizionale?
Abbiamo la linea Sustainable Tableware creata con biopolimeri derivanti dalla lavorazione della polpa della canna da zucchero (un’immagine della linea in foto a destra). Si tratta di prodotti compostabili al 100%, certificati con il marchio di compostabilità Dincertco. Inoltre, abbiamo messo a punto una linea di posate monouso in Cpla, lega tra il polimero ottenuto dalla lavorazione dell’amido di mais e altri materiali biodegradabili. Tuttavia i costi per produrre le cosiddette bioplastiche sono ancora alti, senza contare che gli studi di Life Cycle Assessment dimostrano che la risposta alle problematiche ambientali non è necessariamente nel prodotto compostabile, per la cui produzione il dispendio di energie e risorse in molti casi è superiore rispetto alla plastica tradizionale.