Il bar ha ritrovato i suoi eroi quotidiani

L'editoriale del numero di dicembre 2025 di Bargiornale a firma dei vicedirettori Andrea Mongilardi e Stefano Nincevich. Dedicato a chi più conta: l'ospite

Alessandra, Silvia, Alessio, Filippo, Maria Giulia, Giorgia, Federico, Andrea e gli altri ospiti speciali di Peppe Doria, straordinario oste baffuto di Volare a Bologna. Sono loro la nostra copertina di Bargiornale di dicembre. Non guest star con passaporto stropicciato, non takeover intercontinentali: ma i clienti di tutti i giorni, gli habitué che tengono vive le città e i conti. Sono gli eredi di quel microcosmo affettivo che ha reso immortale il Bar Sport di Stefano Benni: figure ordinarie e straordinarie insieme, capaci di dare ritmo al bancone come fossero una band residente.

Perché diciamolo: quanto ci fa ancora ridere Corrado Guzzanti in quello sketch che sembra scritto ieri, «Ma io e te, aborigeno, ma che ca**o se dovemo dì?». Ecco: spesso il bar rincorre relazioni impossibili - guest shift esotiche, star di passaggio - quando la conversazione autentica è con chi varca la porta ogni giorno e non ha bisogno di forzare nulla. Solo sentirsi riconosciuto. È su questi ospiti che bisogna rimettere il focus. Lo ricorda anche Kate Gerwin intervistata per la rubrica Off the Record di Bargiornale.it: «Se sei un bar di quartiere, paghi le bollette grazie ai tuoi ospiti abituali. E a loro dei tuoi trofei non importa nulla». In un’epoca che idolatra la popolarità, l’ospitalità torna atto sovversivo: accogliere, ascoltare, costruire comunità. Prima degli show, prima di spillette, magliette, merchandising, prima delle foto su Instagram. E i trend attuali lo confermano: l’ospite cerca centralità. Appartenenza, affetto, coerenza con i propri valori. Dopo anni di crisi permanente ha imparato a misurare ogni spesa e ogni emozione. Come ricorda Matteo Figura, direttore divisione Foodservice di Circana Italia, l’età media nel bar cresce: il peso delle visite degli over 45 è aumentato di 15 punti rispetto al 2019, mentre la Gen Z aumenta le uscite e considera il bar un luogo di socialità, non di consumo rapido.

E infatti il motivo numero uno per cui si va al bar oggi è socializzare, non più “prendere e scappare”. Intanto i social sono saturi di artificiale - filtri, avatar, contenuti diversamente intelligenti - e proprio questa overdose spinge a desiderare verità. Umanità. Luoghi che scaldano, non che mettono a distanza. Così spopola il bar-salotto: luci registiche, sedute comode, un design che invita alla permanenza (e che, dati alla mano, allunga lo scontrino medio più di qualsiasi trend). Nei format cresce l’ibrido: locali che funzionano con la solidità di una catena, ma che vengono percepiti come realtà di quartiere, dove il rapporto umano supera la tecnologia. L’experience poi diventa quotidiana: Dj set a colazione, coworking che dialoga col caffè, momenti cuciti su misura più che importati da TikTok. La mixology abbandona l’effetto speciale e abbraccia la relazione. Gamification sì, ma non come giochino digitale: come attivazione sensoriale che trasforma l’ospite in protagonista. E localismo vero: ingredienti che provengono dal rione, non dall’aeroporto. Il mercato sotto casa diventa la dispensa del bar. Tutto converge su un punto: gli ospiti speciali non sono quelli che compaiono una volta. Sono quelli che tornano. E un bar, quando funziona davvero, somiglia sempre ai suoi habitué. Non alle loro stories. Ma a loro. In carne, umore e bicchiere.