
Ci sono libri che non si limitano a raccontare un’epoca: la mescolano. Prima del 1898, i manuali per bartender erano miscellanee generose - punches, juleps, cups, sours - veri atlanti liquidi per chiunque volesse sopravvivere dietro un bancone. Poi, sul finire del XIX secolo, accade qualcosa: la parola Cocktails conquista per la prima volta le copertine. Uno dei primi casi documentati è il manuale di William Boothby (1891). Il secondo, appena sette anni più tardi, è questo elegante volume anonimo: Cocktails – How To Mix Them. Un titolo programmatico, quasi un invito militare alla disciplina: “Dato che lo farai, fallo bene.”Un mantra che, 127 anni dopo, sembra scritto per i bartender di oggi. Il libro apre con una definizione limpida: il cocktail è un aperitivo, uno “stomach stimulant”, e si distingue dalle altre bevande per un dettaglio oggi quasi poetico: la presenza obbligatoria dei bitters. Era la sua firma d’autore, la pennellata che rendeva un drink… un cocktail. Ma il vero twist arriva qualche riga dopo: l’ingresso del Vermouth. Secondo l’autore, fu “la prima mossa verso la miscelazione moderna” e la scintilla che portò i cocktail alla popolarità globale. Su 47 ricette totali, ben 19 prevedono Vermouth: 12 Italiano - il preferito dell’epoca - e 7 Francese. La classicità di oggi nasceva già internazionale. I pilastri rimangono i soliti tre: Gin, Whiskey e Brandy, le fondamenta su cui si costruiva quasi ogni cocktail conosciuto allora (e, diciamolo, anche molti di quelli che beviamo oggi). Le variazioni erano piccole gemme di creatività: il Gin Cocktail in versione Holland, Tom o Plymouth; il Whiskey Cocktail con tre varianti; il Vermouth Cocktail declinato in Dry, French e Fancy, dove la guarnizione - ciliegia o oliva - diventava un gesto identitario più che decorativo. Il manuale non si limita alle ricette: racconta un modo di stare al bancone. Moderare i bitters, misurare con precisione chirurgica, controllare la diluizione, non tradire la logica dell’aperitivo. È un testo che suona ancora moderno proprio perché è preciso, tecnico, essenziale. Zero orpelli, molta sostanza: lo Shaker Manifesto di fine Ottocento. Non è solo un libro, è una pietra d’angolo della mixology. E come sempre, buona lettura da Lucio Tucci, il Bibliotecario di Bargiornale.


