Si fa presto a dire flair

Tecniche –

La parabola del flair dagli anni Ottanta a oggi. Un percorso tra origini, scuole, concorsi, tecniche e specialità in compagnia di Bruno Vanzan, il flair bartender pù telegenico che c’è

No, il signore a fianco non è Tom Cruise. Rispetto al tenente Maverick di “Top Gun” lui è un pilota vero. Non di jet da combattimento, ma di bottiglie. È diverso anche dall'agente Ethan Hunt di “Mission: Impossible”, perché il suo motto è pace e amore e non si sognerebbe di torcere un capello a nessuno. Con Tom Cruise condivide solo alcune scene. Quelle del film “Cocktail”, il colossal di tanti barman cresciuti professionalmente tra gli anni Ottanta e Novanta, dove si raccontavano le gesta di Brian Flanagan, giovane e ambizioso in cerca di un impiego come barman a Manhattan. In quel film l'allenatore di Tom Cruise era John Bandy, lo stesso barman che insieme ai ragazzi della catena americana Tgi Friday's diede inizio a quella tecnica, conosciuta prima come freestyle e in seguito come flair, fatta sia per creare cocktail in tempi rapidi sia per rimorchiare meglio. Quella pellicola, campione d'incassi nel 1988, segna l'ingresso dei barman acrobatici sulla scena planetaria. Bruno Vanzan invece è un barman vero, in carne e shaker, nato nel 1986. È stato lui il primo a sdoganare in televisione non solo il bartending acrobatico, ma l'intero mondo del cocktail. La testimonianza e l'accuratezza del suo lavoro di ricerca, semplice e senza troppi fronzoli, la trovate ogni mese tra le ricette del Drink Team di Bargiornale. Grazie al suo ruolo da comprimario in programmi come i “Menù di Benedetta” su La7 o i più recenti “Top Dj” su Sky Uno è diventato il primo barman divo della televisione italiana. Lo sa e fa il pavone. Sulla sua pagina Facebook da 13mila e rotti fanatici appiccica foto e commento: “Il mio post ha ricevuto 200mila visualizzazioni”. Qualche giorno dopo al telefono mi fa sapere che sono arrivate a 320mila. Per noi è un entusiasta, per altri uno spaccone. La verità, come vuole l'adagio, sta nel mezzo. Ed è quella di un ragazzo cocciuto, cresciuto nella periferia romana, tra i quartieri Tiburtina e San Basilio, con tanta voglia di farcela. “Ho perso per strada amici e fidanzate, non ero di compagnia, mentre tutti uscivano la sera, io preferivo allenarmi“.

Un libro per tutti

Così ricorda nel suo “Tutti i miei cocktail” (Rizzoli, 2013), libro che si presenta come il primo manuale per imparare a creare a casa drink per ogni occasione usando una semplice tazzina da caffè come unità di misura. Se mia zia ha imparato a fare il Mojito lo devo a lui. Oggi Bruno Vanzan è tra i fiori all'occhiello di Planet One, tra le più rinomate scuole di american bartending del Paese. Ne è diventato trainer e uomo immagine. È con lui che siamo andati ad indagare il mondo del bartending acrobatico. Prima di entrare nel vivo anticipiamo che di flair non ce n'è solo uno. La madre però è la stessa e di nome fa american bartending, una scuola parallela a quella classica nata per l'esigenza di servire drink alla velocità del fulmine. Cambiano le prese, l'impugnatura, la postura, il mondo di contare la versata ecc. Tutto è funzionale alla rapidità e, per quanto possibile, alla precisione. Così, con un inelegante accrocchio verbale si dice flairbartender o flairtender, la figura professionale che lavora nelle discoteche, nei pub, nei grandi eventi dove c'è poco tempo da perdere e tanta gente da servire in una sorta di attacco al Fort Apache. Non si tratta di un mostro partorito negli anni Ottanta, come qualcuno vorrebbe far credere, ma di una delle più antiche forme per rendere spettacolare il servizio.

Thomas e i suoi discepoli
Il pioniere dei barman americani, noto come professor Jerry Thomas, faceva l'acrobata già nell'Ottocento. In panciotto, baffoni e cipiglio, incendiava il Blue Blazer e poi faceva volare nell'aria di tutto: tovaglioli, bicchieri e cucchiai. Roba da circo, intendiamoci, senza nessuna idiosincrasia per il circo. Molti dei più rinomati mixologist italiani sono passati dal flair prima di approdare al mondo del classico: Agostino Perrone, Francesco Leoni, Simone Maci, Roberto Artusio, Matteo Fabris, Guglielmo Miriello, Dennis Zoppi, Debora Tarozzo e altri giovani di talento come Marco Russo o Luca Vezzali. Tornando a bomba, di flair ce ne sono due tipi: working ed exhibition o show. Il primo è una tecnica di lavoro pura e semplice fatta di velocità di esecuzione, precisione nei versaggi e movimenti acrobatici limitati al minimo indispensabile. Lo show flair invece è una pratica più assimilabile allo sport. Si usano bottiglie e boston tin per eseguire il maggior numero di acrobazie. Le regole dello spettacolo sono complesse e differiscono da gara a gara. In sintesi, il gioco sta nell'eseguire, in un tempo che oscilla dai quattro agli otto minuti, la maggior parte dei movimenti o trucchi senza commettere troppi errori (spruzzi di prodotto, cadute di bottiglie ecc.) e con la massima fluidità, eleganza, interagendo col pubblico. Di solito si tratta di sfide di gruppo, altre volte di gare one to one, o di contest a eliminazione diretta. Gli estimatori del flair sono tanti e i concorsi dedicati non mancano. Certo, sono finite le vacche grasse. Fino al 2008 c'era chi, coi guadagni delle gare, comprava auto di lusso. Il campione Danilo Oribe dichiarava a Bargiornale che l'80% dei suoi introiti era fatto coi guadagni delle competizioni. Poi, dal 2010, il vento è girato definitivamente. In quell'anno chiude i battenti per mancanza di sponsor il Legends of Bartending, il vero campionato del mondo di scena a Las Vegas. Grossi player come Skyy Vodka abbandonano le gare e si dedicano ad altro. Di glorioso nel circuito rimane solo la competizione organizzata al Roadhouse di Londra con un montepremi di 13.000 sterline. Eppure l'interesse verso questo mondo è palpabile. A riprova la nascita in tutta Italia di centinaia di scuole di flair, delle quali solo una ventina valide e le altre ricavate nel sottoscala giusto per spillare qualche soldo a ragazzini in cerca di un lavoro facile. Apprendista avvisato, apprendista salvato.

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