Come cambia il lavoro al bar

Professione –

Tutte le novità più significative della riforma appena approvata; le opinioni delle associazioni di categoria e il parere dell’esperto

La legge di riforma del lavoro (92/2012) è entrata in vigore il 18 luglio, con una serie di novità che vanno dal nuovo ammortizzatore sociale (Aspi) alle regole più stringenti per la flessibilità in entrata. Novità limate in alcuni punti dal successivo decreto sviluppo (Dl 83/2012) convertito in agosto. Vediamo quali sono le novità di questa riforma che toccano più da vicino i pubblici esercizi.

Apprendistato
L’apprendistato diventa il canale tipico di ingresso nel mondo lavorativo. Un “trampolino di lancio”, come l’ha definito il ministro Elsa Fornero, inteso a contrastare la precarietà di chi si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro. Il contratto ha una durata minima di sei mesi, salvo il caso in cui si stipuli per attività stagionali, per le quali è prevista una durata inferiore. Il piano formativo può durare fino a tre anni, ma sale a cinque anni per i profili professionali “caratterizzanti la figura dell’artigiano”, che il Ccnl Turismo individua in barman, pasticceri e gelatieri.
Le nuove regole, accanto a un preciso impegno formativo da garantire al giovane, fissano altri paletti. Resta confermato il numero massimo di apprendisti che possono essere assunti dai datori che occupano da 4 a 9 dipendenti: cioè un apprendista ogni lavoratore qualificato. Chi non ha in forza lavoratori qualificati o ne ha meno di tre non può assumere più di tre apprendisti. Dal 1° gennaio 2013, però, aumenta il numero massimo di apprendisti che può assumere chi occupa più di nove dipendenti: il rapporto, da sempre 1 a 1, diventa di 3 a 2: vale a dire che l’impresa può prendere tre apprendisti ogni due lavoratori a tempo indeterminato. I datori, per i primi tre anni dall’entrata in vigore della norma, non potranno stipulare nuovi contratti di apprendistato se nei 36 mesi precedenti non hanno confermato in servizio almeno il 30% dei contratti di apprendistato scaduti. La percentuale salirà al 50% dopo i tre anni dalla legge (ma in ogni caso, non si calcolano i rapporti conclusi per mancato superamento del periodo di prova, dimissioni o licenziamento per giusta causa). Il Testo Unico (Dlgs 167/2011) già prevedeva che i contratti collettivi potessero considerare forme e modalità per la conferma in servizio al termine del periodo di apprendistato. E infatti il settore turismo, uno dei primi a dare esecuzione a quel testo dove la parte formativa veniva affidata ai contratti collettivi, aveva stabilito che per poter assumere bisognava aver mantenuto in servizio almeno il 70% dei lavoratori il cui contratto di apprendistato era scaduto nei 24 mesi precedenti. Ora però il vincolo (più basso) viene inserito direttamente nella norma. Se non si rispetta la percentuale indicata, oppure non è stato confermato alcun apprendista nei 36 mesi precedenti, è comunque possibile assumerne almeno uno. Tutti gli apprendisti assunti in eccedenza rispetto ai limiti di legge vengono considerati normali lavoratori subordinati.

Tempo determinato
Il contratto a tempo determinato viene disincentivato dal punto di vista giuridico ed economico. La durata massima dei contratti in successione è di 36 mesi (comprensiva dei periodi di missione in somministrazione), superati i quali scatta la stabilizzazione. Le ripetizioni dei contratti a termine con lo stesso lavoratore possono avvenire purché ci sia un’interruzione minima di 60 o 90 giorni (a seconda che il contratto sia inferiore o superiore ai sei mesi). I contratti collettivi possono comunque prevedere una riduzione di questi intervalli rispettivamente fino a 20 e 30 giorni.
Il ricorso ai contratti a tempo determinato costerà di più alle imprese, che dal 1° gennaio prossimo dovranno affrontare un aumento contributivo dell’1,4% per finanziare l’Aspi. Ma le stesse imprese possono fruire di un alleggerimento sul lato degli adempimenti. Per il primo contratto a termine stipulato tra le parti, di durata non superiore ai 12 mesi, è possibile non indicare alcuna causale che giustifichi il termine (vale anche per la missione a termine con contratto di somministrazione). La possibilità consente così nei fatti una “prova lunga” tra imprese e lavoratori, anche se è ammessa per un solo contratto e non prevede proroga. Le parti che hanno già sottoscritto un contratto alla data di entrata in vigore della legge non possono però avvalersi della facilitazione. 
I contratti collettivi potranno prevedere l’assenza di motivazione anche per contratti superiori a 12 mesi ma solo nel limite complessivo del 6% del totale dei lavoratori occupati nell’unità produttiva.
Un’altra deroga riguarda l’estensione del contratto. Il lavoratore potrà infatti continuare a svolgere la propria mansione anche oltre il termine fissato dal contratto, ma entro i limiti di 30 giorni per i contratti inferiori a 6 mesi e di 50 giorni per quelli di durata superiore. Il tutto a patto che il datore lo comunichi al Centro per l’impiego competente, entro la scadenza del termine, indicando la durata della prosecuzione.
Se si presenta una condizione di nullità, il lavoratore ha 120 giorni di tempo dalla scadenza del contratto per avanzare l’impugnativa (per le cessazioni successive al 1° gennaio 2013). Se poi il giudice ordina la ricostituzione del rapporto di lavoro, allora l’indennità risarcitoria relativa al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia va da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Part-time
I contratti collettivi potranno stabilire condizioni e modalità con cui il lavoratore può richiedere l’eliminazione o la modifica delle clausole elastiche (che permettono al datore di allungare l’orario di lavoro) o flessibili (quelle che permettono di modificarne la collocazione).
Sono previsti anche casi in cui il lavoratore ha diritto, senza il bisogno di alcuna specifica della contrattazione collettiva, di revocare il consenso già dato a una clausola elastica: ne possono usufruire i lavoratori studenti, i genitori conviventi di figli di età non superiore a 13 anni, le persone con patologie oncologiche (o con coniuge, figli o genitori malati), i conviventi con familiari portatori di handicap.

Lavoro intermittente
Per contenere le forme di impiego irregolari, che potrebbero cioè nascondere rapporti di lavoro subordinati, le regole sulla flessibilità in entrata riguardano anche il lavoro intermittente (o a chiamata: il cosiddetto job on call). Sono già entrate in vigore, ma per i contratti in corso saranno operative il 18 luglio 2013. Al di fuori dei casi previsti dai contratti collettivi, il lavoro a chiamata può essere avviato con persone di età superiore ai 55 anni o con meno di 24 anni (nel qual caso le prestazioni devono concludersi entro il 25° anno di età).
Per avvalersi del job on call, il datore è tenuto a inviare una comunicazione preventiva alla competente direzione territoriale del lavoro, mediante fax, sms o posta elettronica. Se il lavoratore deve svolgere un ciclo integrato di prestazioni, per una durata non superiore a 30 giorni, la comunicazione può essere unica. Se il datore viola l’obbligo di comunicazione va incontro a una sanzione da 400 a 2,400 euro per ciascun lavoratore omesso.

Lavoro accessorio
Anche il lavoro accessorio subisce delle limitazioni, in particolare sui compensi. Il limite complessivo diventa di 5mila annui per singolo lavoratore (indipendentemente dal numero di committenti) e non più di 5mila euro annui per singolo committente. Per gli imprenditori commerciali il tetto è di 2mila euro. I buoni lavoro (voucher) con cui i lavoratori vengono pagati devono essere orari, numerati progressivamente e datati. Inoltre l’aliquota contributiva sarà aggiornata da un decreto ministeriale, che l’aggancerà agli incrementi previsti per la gestione separata Inps. I buoni già richiesti alla data di entrata in vigore della riforma sono utilizzabili con le vecchie regole non oltre il 31 maggio 2013. I compensi da lavoro accessorio, infine, saranno validi per il computo del reddito necessario al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno.

Partecipazione
Una stretta arriva anche per l’associazione in partecipazione, il contratto in base al quale l’associato attribuisce una partecipazione agli utili (ad esempio, una quota delle entrate del locale) all’associato che a sua volta si impegna a dare all’impresa un determinato apporto. Per evitare abusi, la riforma impone che il numero degli associati in una medesima attività non possa essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, a meno che gli associati siano legati da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo. Il limite di tre associati si riferisce all’azienda nel suo complesso e non al singolo locale.
In caso di violazione, il rapporto con tutti gli associati si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L’associazione in partecipazione è infatti spesso usata impropriamente, diventando un escamotage per assumere personale risparmiando sui costi. Così, secondo le nuove regole, se i rapporti di associazione non vedono una effettiva partecipazione e adeguate erogazioni, il lavoratore ha diritto a trattamenti contributivi, economici e normativi previsti per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente.

Aspi
Nel 2013 debutterà l’Aspi, la nuova Assicurazione sociale per l’impiego, che gradualmente sostituirà sia l’indennità di disoccupazione sia quella di mobilità (la fase transitoria sarà completata nel 2017).
L’Aspi riguarderà tutti i lavoratori dipendenti privati, inclusi apprendisti e soci di cooperativa. I requisiti di accesso sono due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane di contribuzione nel biennio precedente il licenziamento.
La nuova assicurazione durerà 12 mesi per i lavoratori fino ai 54 anni e 18 mesi dai 55 anni in poi. L’importo massimo è di 1.119,32 euro e si prevede un abbattimento del 15% dell’indennità dopo i primi sei mesi e di un ulteriore 15% dopo altri sei mesi. Sempre dal gennaio prossimo arriverà anche la cosiddetta mini-Aspi, che prenderà il posto dell’attuale indennità di disoccupazione con requisiti ridotti: potrà essere concessa in presenza di almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi.

Licenziamenti
Le modifiche all’art.18 dello Statuto dei lavoratori (che riguarda le imprese con oltre 15 dipendenti) non toccano i licenziamenti discriminatori, ma introducono molte novità sui recessi disciplinari e per motivi economici.
Nel caso di licenziamento per giusta causa, se il giudice annulla perché il fatto non sussiste o perché è riconducibile a una sanzione minore sulla base del contratto collettivo, al lavoratore spetta il reintegro e un’indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità. Se invece il giudice annulla per altri motivi (ad esempio: il fatto sussiste ma non c’è stata una tempestiva contestazione), spetta solo un’indennità tra 12 e 24 mensilità.
Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cioè economico), in cui però viene accertato che non ricorrono gli estremi, al lavoratore viene riconosciuta solo un’indennità (tra 12 e 24 mesi), oltre ai contributi previdenziali, ma non il reintegro; il dipendente avrà diritto anche al reintegro solo se il giudice ritiene il licenziamento “manifestatamente infondato”.
Per questi licenziamenti cambia però la procedura. Il datore deve inviare una comunicazione preventiva alla direzione territoriale del lavoro, indicando le ragioni per cui intende procedere al licenziamento e illustrando le eventuali misure di ricollocazione. Entro sette giorni la Dtl convoca le parti, che devono incontrarsi nei successivi 20 giorni. Se la conciliazione fallisce, il datore può intimare il licenziamento, che ha così efficacia dal giorno di avvio della procedura (ma l’infortunio sul lavoro può sospendere l’efficacia dell’atto). 

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