Un sensei curioso

Dal mondo –

Ha viaggiato, conosciuto, studiato. Questa è la sua vera forza. Un anno dopo la vittoria al World Class, incontriamo Manabu Ohtake, il giapponese sul tetto del mondo

Manabu è l’equivalente giapponese del verbo “imparare”. Manabu è anche il nome di battesimo di Ohtake, il primo orientale a entrare nella storia, per aver vinto il titolo di miglior barman dell’anno al World Class. Lo abbiamo visto in azione a Nuova Delhi, teatro di un’incredibile sfida mondiale, e lo rincontriamo esattamente un anno dopo a Londra nei panni dell’opinion leader. Che non sia il giapponese ingessato e noioso delle barzellette, l’avevamo intuito. Gioca, diverte, intrattiene con verve. Come quando in India si presentò spavaldo e fiero in costume tradizionale giapponese semi trasparente davanti all’attonito giudice Peter Dorelli. Conosce l’inglese, ma gira ancora con un’interprete fedele al fianco. Solo perché è un perfezionista e non ama commettere errori. In questo senso sì, è molto giapponese: «Ogni giorno imparo. Ce l’ho scritto nel Dna, oltre che nel nome. Non avevo alcuna intenzione di intraprendere questa carriera. Stavo rintanato nella cucina di un ristorante d’hotel quando si è presentato un cliente che voleva un cocktail. L’ho condotto al bar e sono rimasto folgorato. Vedevo un barman che si muoveva in maniera straordinaria e un cliente che sorrideva compiaciuto. Ho deciso di uscire dalla buca. Sono passato allo scoperto per rivedere ancora quella felicità negli occhi di un cliente. Mi sono allenato duramente, ma senza poter servire cocktail per un anno. Nel frattempo ho lavato bicchieri, lucidato il banco e tenuto in ordine la sala. Poi finalmente i miei primi cocktail e la felicità». Nei bar famosi del Giappone le comande si concentrano sui classici dal gusto semplice come Sidecar, Dry Martini o Gimlet.
Nella carta del Tower’s Bar Bellovisto di Manabu Ohtake si trovano specialità stagionali a base di limoni, yuzu (un agrume tipico) e altri ingredienti freschi. Lavorano molto anche con le infusioni. «In certi casi sciolgo la polvere del tipico tè verde Matcha nell’alcol e la lascio sonnecchiare per 24 ore. Altre volte applico le regole della chanoyu, la nostra tradizionale cerimonia del tè. Mescolo il tè polverizzato servendomi del chasen l’apposito frullino di bambù. La bevanda che ne risulta non è un’infusione, ma una sospensione. Come succede per il tè».

Un mosaico di gusti ed esperienze

Manabu ha passato un anno intero in viaggio. Nel bagaglio non conserva solo ricette e souvenir, ma il ricordo di culture straordinarie che l’hanno impressionato. «Parlo di culture, non solo di cocktail, perché traggo ispirazione da fonti diverse». Sostiene che ama osservare gli altri bartender, ma quando viaggia si lascia influenzare dall’arte, dalla musica, dal cinema e dal folklore locale. Più in generale da tutto ciò che fa parte delle radici di un popolo.

Quella certa affinità elettiva

Fare la nostra professione non è solo una questione legata all’alcol. Lungo il cammino ho scoperto professionisti straordinari. Penso all’italiano Guglielmo Miriello, conosciuto alla finale mondiale, e rivisto di recente a Shangai alla Maison Pourcel. Da pochi mesi lavora lì come bar manager ed è diventato una celebrità. Ha uno stile unico, straordinario. L’ho osservato notando che nel giro di poco è diventato un asso. Aveva ed ha ancora oggi fame di sapere. E in questo, nonostante le distanze, siamo profondamente legati.

Lascia un commento

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome