Sembra latte ma non è: Frankie loves Rome di Daniele Gentili

Servizio –

Una nuova vita per tazze, tazzine e teiere. Dopo aver convissuto per secoli con tè, cappuccini e caffè ora strizzano l’occhio anche al mondo del cocktail

Lo sappiamo: gli stranieri hanno un affetto morboso verso il cappuccino. Lo bevono ovunque e comunque, dall’alba al tramonto, senza soluzione di continuità. Quello che trovate nella pagina a sinistra ci assomiglia in tutto e per tutto, cornetto compreso, ma non lo è.
In realtà si tratta di Frankie loves Rome, ricetta con la quale Daniele Gentili, oggi in forze al Dulcamara di Roma, ha vinto l’ultima finale capitolina del World Class. La miscela racchiude 5 cl Tanqueray No. Ten, 2 cl sciroppo di pepe vanigliato e fave tonka, 3 cl di succo di lime, 1 cucchiaio di meringa, schiuma di Frangelico e spolverata di tonka grattuggiata. Di latte, caffè e cacao, ci sono solo alcune reminescenze, ma niente di più. Il drink di Daniele Gentili è da iscrivere alla moda dei drink presentati in tazza anzichè nel tradizionale bicchiere. Una tendenza che ha radici primordiali.

Quando è "lecito" usare la cup
Agli albori della miscelazione americana, i barman furono i primi a traghettare antiche ricette domestiche, dai punch agli egg drink, nei saloon. In pratica resero pubbliche le bevande della nonna utilizzate per le ricorrenze dal Natale al giorno del Ringraziamento. Una volta in azione, ogni contenitore diventava lecito. E se non c’era il vetro anche la tazza di porcellana, usata abitualmente per il tè, poteva fare la sua buona figura. Basti pensare all’antico rituale del servizio del punch: una bowl, tante tazzine per gli ospiti. La tazza è adatta sia per le ricette in versione fredda sia per gli hot drink. In questo secondo caso la cup ha anche una funzione termoregolatrice. In altre parole è tempo sprecato raffreddare la tazza col ghiaccio. Certo bisogna scegliere il drink giusto. Un martini servito in tazza è ridicolo, meglio puntare su altre preparazioni. Massimo Stronati, capo barman al The Doping Club dello Yard Hotel di Milano, ha reinterpretato il Manhattan con Ardbeg 10 anni e il nuovo vermouth rosso Oscar 697 e lo serve nella cup. «Certo - sottolinea Stronati - il drink va proposto solo all’ospite in grado di apprezzarlo. Altrimenti si rischia di cadere nel ridicolo o di suscitare imbarazzo».

L’aspetto rituale del servizio

L’altro aspetto interessante del servizio con lo tazze è quello teatrale. Il drink può essere portato al tavolo nella teiera. Agli ospiti il compito di versarlo nelle proprie tazze. Un modo come un altro per offrire un’esperienza divertente al pubblico. È ciò che ha fatto, al 21° Trofeo Nino Cedrini, Luca Angeli del Four Seasons di Firenze col suo My Way. Un cocktail a base di rye whiskey sposato a tre tipi di latte e sciroppo d’acero, che viene shakerato, poi filtrato e infine servito dalla teiera alle tazzine. In bilico, tra funzionalità e gesto atletico, è anche l’uso di versare con tecnica throwing dalla teiera allo shaker e viceversa. Come fa, con buona padronanza del mezzo, Massimo Stronati nel suo bar. Un’operazione di ossigenazione delle miscele che cattura l’attenzione degli ospiti. Certo, ribadiamo, niente di nuovo sotto il sole. Da secoli i giapponesi seguaci del Buddhismo Zen hanno elevato la Cerimonia del Tè (Chado) non soltanto a un rito sociale, ma a una vera e propria pratica spirituale. Lo scopo finale, qui come nell’ambiente dei cocktail, è o dovrebbe essere sempre il medesimo: “dare a coloro con cui ti trovi ogni considerazione”. Come scriveva, già nel XVI secolo, il monaco zen Sen no Rikyu.

Lascia un commento

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome