Quando il bar emigra altrove

Tendenze –

Succede soprattutto nelle grandi città dove lo ritroviamo all’interno di librerie, centri commerciali o ristoranti. Un fenomeno dovuto anche alla progressiva estinzione del bar come crocevia di relazioni sociali

Bargiornale ne ha fatto un po’ una sua battaglia. Stiamo parlando della difesa e della promozione di quei bar che, pur stando al passo dei tempi, non vogliono abdicare al loro ruolo di centri di aggregazione sociale. Il pensiero, avrete già capito, va ai locali di una volta dove gli avventori passavano il loro tempo a giocare, bere, fumare, intrattenere relazioni, guardare la tivù e giocare a biliardo. Una battaglia che non ha nulla di nostalgico, ma che s’inquadra in uno scenario dove il bar-sociale è un “soggetto” ormai in via di estinzione e dove paradossalmente le tipiche situazioni da “Bar Sport” evocate dallo scrittore Stefano Benni sono oggi prerogative di formule alternative, diffuse soprattutto nelle grandi città, che nulla o poco hanno a che fare con il mondo della somministrazione tradizionale. Se il bar ha perso nel corso degli ultimi anni la propria identità di crocevia di relazioni sociali e ludiche, la colpa non è interamente addebitabile a imprenditori e gestori. Oggi i pubblici esercizi si confrontano con un consumatore nomade: non esiste più, come in passato, una cerchia sociale fissa o stanziale, ma la clientela varia di continuo in ragione dei diversi momenti di consumo. E se si vuole competere bisogna giocoforza organizzarsi: caffè e brioche alla mattina, piatti pronti, panini e cucina a mezzogiorno, stuzzichini e aperitivi al pomeriggio e, così, senza quasi soluzione di continuità, fino a notte inoltrata con il bar che si trasforma in discoteca. Questa girandola di attività ha difatto mutato l’anima al bar, facendolo diventare spesso un mero luogo di passaggio e uno spazio di consumo senza identità come tanti altri.
Un “supermercato” che punta a sfrondare il business da quei servizi o da quelle facilities che pongono proprio l’accento sui valori della convivialità e della socialità.

Locali in cerca di un’identità

Valori che, come dicevamo, vengono recuperati da soggetti che, oltre ad essere competitor diretti del bar, si propongono in molti casi proprio come poli di socializzazione. Basti pensare ai punti di ristoro all’interno di megalibrerie o multistore come la Feltrinelli o Fnac che alla domenica, quando la stragrande maggioranza dei bar ha le saracinesche abbassate, registrano il tutto esaurito. Oppure, pensiamo ai “nuovi” ristoranti McDonald’s che recuperano atmosfere tipiche dei lounge americani con tanto di quotidiani, divani e wi fi gratuito (un servizio ancora stranamente snobbato dai bar tradizionali) dove la clientela è invitata a “rimanere” il più a lungo possibile. E se proprio vogliamo dirla tutta anche Starbucks, formula “à la page” incensata da opinionisti ed esterofili sempre pronta secondo le cronache a uno sbarco nella Penisola, non fa altro che applicare nei suoi “spazi newyorchesi” la lezione sociale dei bar italiani. Stante le premesse sarebbe, dunque, ora di un ripensamento. «In effetti - spiega Luisa Aschiero, ricercatrice senior di Future Concept Lab - il bar ha perso negli ultimi tempi i suoi caratteristici valori di spazio emozionale. E, difatti, si assiste a un sorpasso da destra di formule ibride che vanno a coprire una domanda latente di socialità che i bar tradizionali, almeno quelli localizzati nei grandi centri metropolitani, non riescono più a soddisfare. Formule che spesso combinano cibo e cultura e che collocano il bar all’interno di spazi culturali o museali: un fenomeno quest’ultimo particolarmente sviluppato all’estero e che come Future Concept Lab teniamo costantemente sotto osservazione. Si tratta spesso di spazi multifunzionali che, oltre a favorire la condivisione, dialogano attraverso eventi o incontri con il territorio di rifemento».
È chiaro che “ritornare” alle origini richiede da parte del gestore un forte investimento in termini di tempo e di risorse. «Occorre non solo cuore e passione - aggiunge Gabriele Cortopassi, creatore e coordinatore del blog Aprire un bar - ma anche un buon tasso di professionalità. Purtroppo, a causa del’elevatissimo turn over che caratterizza il settore, il bar spesso fatica a radicarsi nel territorio e si assiste a un fenomeno di spersonalizzazione che alla fine svuota il locale da ogni contenuto che non sia la somministrazione pura e semplice. Inoltre, c’è da considerare che il bar, nonostante la crisi, resta ancora un settore rifugio dove si cimentano gestori senza arte né parte». Sul tema dell’improvvisazione insiste anche Bruno Contigiani, presidente dell’associazione “L’arte del vivere con lentezza” e promotore dell’iniziativa “Leggevamo quattro libri al bar”: «In Italia manca fondamentalmente la cultura del bar e i gestori non sono quasi mai “formati” a diventare dei veri imprenditori. Per contro, si avverte una sensibilità nuova: ad esempio, una notevole crescita dei tavolini all’interno e all’esterno dei locali. È una tendenza molto positiva e segna il ritorno a una formula di bar simile a quella del bistrot parigino». Se è vero che il bar, come risulta da una recente ricerca promossa da Sanbittèr, è il social network più amato dagli italiani, basterebbe davvero poco per mettere a frutto questa sua naturale propensione. E dare finalmente al proprio locale una vera identità.

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