Per i limiti numerici è l’ora della pensione

Sentenze –

Non sarà più possibile negare il rilascio di licenza di pubblico esercizio in base a criteri economici che si rifanno a rapporti numerici o a quote di mercato. Così è stabilito dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 2808 del 5.5.09. Di seguito il testo integrale

REPUBBLICA ITALIANA
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE Sezione Quinta

ha pronunciato la seguente

Decisione

sul ricorso in appello n. 1190 del 2008, proposto dal Comune di Milano, rappresentato e difeso dagli
avv.ti Maria Rita Surano, Antonella Fraschini, Ruggero Meroni e Raffaele Izzo, elettivamente
domiciliata presso l’avv. Raffaele Izzo in Roma, Lungotevere Marzio 3;

contro

la Panet s.r.l., rappresentata e difesa dagli avv.ti Guido Francesco Romanelli e Umberto Grella,
elettivamente domiciliata presso il primo in Roma, via Cosseria 5;

e nei confronti

della Regione Lombardia, rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonella Forloni e Federico Tedeschini,
elettivamente domiciliata presso il secondo in Roma Largo Messico 7;
della Pappafood s.r.l., rappresentata e difesa dall’avv. Sergio Careda e dall’avv. Mario Radice,
elettivamente domiciliata presso l’avv. Ferdinando Maria De Matteis con studio in Roma via di Porta
Pinciana 4;
della Federazione Pubblici Esercizi – FIPE, rappresentata e difesa dall’avv. Carlo Piccirillo, nel cui
studio è selettivamente domiciliata in Roma via R. Grazioli Lante 70;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Milano, Sez. IV, 12
novembre 2007 n. 6259, resa tra le parti.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Società appellata e gli atti di intervento della Regione
Lombardia, della Società Pappafood e della FIPE;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del 10 febbraio 2009 il consigliere Marzio Branca, e uditi gli avvocati
Raffaele Izzo, anche per delega di Federico Tedeschini, Carlo Piccirillo e Umberto Girella anche per
Sergio Cereda;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

Fatto

Con la sentenza in epigrafe è stato accolto il ricorso, e, parzialmente, i successivi motivi aggiunti,
proposti dalla PANET s.r.l. avverso il diniego di autorizzazione all’attività di somministrazione di
alimenti e bevande nei locali siti in Milano, Via Broletto n. 43, angolo Via Cusani n. 1, espresso dal
Comune di Milano con i provvedimenti del 12 settembre 2006 e del 31 gennaio 2007.
Il T.A.R., dopo aver condotto un’ampia ricostruzione della normativa statale e regionale in materia di
somministrazione di alimenti e bevande, anche alla luce del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella
legge 4 agosto 2006 n. 248 (c.d. decreto “Bersani”), e ritenuto che le novità della legge 248/2006
non si riferiscono certo alle sole attività di cui al D.Lgs. 114/1998, ha affermato che l’attuale assetto
regolatorio comunale appare in contrasto con la lettera d), art. 3 del citato d.l. n. 223, in forza della
quale è illegittimo imporre il rispetto di «limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul
volume delle vendite a livello territoriale sub regionale».
E’ stata respinta la domanda di risarcimento del danno.
Il Comune di Milano ha proposto appello per la riforma della sentenza, previa sospensione
dell’efficacia.
La Panet s.r.l. si è costituita in giudizio per resistere al gravame, ed ha proposto appello incidentale
per la riforma del capo si sentenza recante il rigetto della domanda risarcitoria.
Hanno esplicato atto di intervento ad adiuvandum la Regione Lombardia e la Federazione Italiana
Pubblici Esercizi.
La Pappafood s.r.l., quale titolare di autorizzazione alla somministrazione di alimenti e bevande, con
efficacia condizionata all’eventuale rigetto dell’appello, ha proposto intervento ad opponendum. Con ordinanza 28 marzo 2008 n. 1641, la Sezione ha accolto la domanda cautelare, considerato che
«da una comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, appare opportuno –
onde evitare di lasciare le amministrazioni senza alcun quadro di riferimento nel settore – accogliere
l’istanza cautelare limitatamente agli effetti della sentenza impugnata sugli atti generali intervenuti in
materia, salve restando le autorizzazioni già rilasciate alla data di adozione della presente
ordinanza».
Il Comune di Milano e la Pappafood s.r.l. hanno depositato memorie.
Alla pubblica udienza del 10 febbraio 2009 la causa è stata trattenuta in decisione.

Diritto
Come emerge dagli atti, in data 7 agosto 2006 la società Panet presentò istanza al Comune di
Milano, per ottenere l’autorizzazione all’attività di somministrazione di alimenti e bevande nei locali siti
in Milano, Via Broletto n. 43, angolo Via Cusani n. 1.
L’Amministrazione, attraverso nota del Direttore Centrale Attività Produttive del 12.9.2006, rigettò
l’istanza suddetta, vista l’ordinanza sindacale del 7.5.2005 e ritenuto che l’area ove si sarebbe
collocato l’esercizio risultava, almeno stando agli uffici comunali, già eccessivamente satura di esercizi
di somministrazione.
Panet Srl chiese il riesame della decisione negativa con lettera del 19 ottobre 2006, ma
l’Amministrazione confermò il provvedimento di diniego con nota del 25 ottobre 2006, nella quale, fra
l’altro, si precisò che la legge n. 248/2006 (già citata), non avrebbe inciso sulla legislazione vigente.
Contro i suddetti provvedimenti comunali è stato proposto il ricorso principale, con domanda di
risarcimento danni.
Successivamente, Panet s.r.l. ha notificato al Comune un atto di diffida e messa in mora, intimando al
medesimo di dare attuazione a quanto previsto dall’art. 3 della legge 248/2006, in ordine alla
liberalizzazione del settore delle autorizzazioni per pubblici esercizi.
In risposta a tale diffida, il Direttore del Settore Commercio, con provvedimento del 30.1.2007, ha
confermato i pregressi atti di diniego, reputando l’art. 3 legge 248/2006 non incidente sulla
regolazione comunale del commercio.
Contro tale ulteriore diniego dell’Amministrazione sono stati proposti motivi aggiunti, con domanda di
sospensione e di risarcimento danni, attraverso i quali sono state sostanzialmente rinnovate le
censure già esposte nel gravame principale.

Con la sentenza in epigrafe il T.A.R. della Lombardia, in primo luogo, ha esaminato, e respinto,
l’eccezione di inammissibilità dei motivi aggiunti, con i quali è stato impugnata la nota 30 gennaio
2007, emessa dal Comune di Milano in risposta alla diffida notificata dall’appellante.
Il Comune ha sostenuto in primo grado, e ribadisce nella presente sede, che l’atto non era
impugnabile, in quanto meramente confermativo dei dinieghi adottati il 10 e il 25 ottobre 2006,
peraltro tempestivamente contestati con il ricorso principale.
In disparte le ragioni, del tutto condivisibili, per le quali il T.A.R. ha ritenuto la natura provvedimentale
della nota, e quindi la ammissibilità dei motivi aggiunti, la censura rivolta alla sentenza è
inammissibile, non avendo il Comune dimostrato quali effetti avrebbe l’accoglimento della medesima
sull’esito della controversia, stante la tempestiva impugnazione degli originari provvedimenti negativi.

Con il secondo e con il terzo mezzo, che possono essere esaminati congiuntamente, il Comune di
Milano censura la sentenza per le proposizioni con le quali ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’art.
1, comma 2, parte seconda, della legge n. 131 del 2003, “Disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3” (c.d. “legge La
Loggia”).
La censura non si comprenderebbe senza trascrivere il ragionamento del primo giudice.
«Nella Regione Lombardia, la disciplina della somministrazione di alimenti e bevande è contenuta
nella legge regionale 24.12.2003, n. 30, le cui disposizioni appaiono per taluni versi innovative
rispetto alla regolazione statale della materia, prevista dalla legge (dello Stato), n. 287/1991 (si pensi
ad esempio all’autorizzazione unica, di cui agli artt. 3 e 9 della l.r. 30/2003, in luogo delle diverse
tipologie autorizzatorie, contraddistinte con le lettere da A a D, di cui all’art. 5 della legge 287/1991).
Secondo l’art. 9, comma 2, della legge regionale citata, le Amministrazioni comunali, attraverso
deliberazione del Consiglio, avrebbero dovuto stabilire i criteri per il rilascio di nuove autorizzazioni,
entro centottanta giorni dall’approvazione, da parte della Regione, degli indirizzi generali, ai sensi
dell’art. 8 della legge medesima (i suddetti indirizzi generali sono stati adottati dalla Giunta Regionale
della Lombardia con delibera 17.5.2004, n. VII/17516).
Con legge n. 25/1996, tuttavia, era stato previsto che le autorizzazioni di cui alla legge 287/1991
fossero rilasciate dai Sindaci, previa fissazione, da parte degli stessi, di un parametro numerico che
assicuri, in relazione alla tipologia degli esercizi, la migliore funzionalità e produttività del servizio.
In attuazione della suddetta legge 25/1996, il Sindaco del Comune di Milano fissava i parametri di cui
sopra con ordinanza del 12.11.2003, dunque anteriore alla legge regionale 30/2003.
Per effetto dell’entrata in vigore di quest’ultima, la quale, come sopra ricordato, affida ai Consigli
comunali il potere di fissazione dei criteri per il rilascio di nuove autorizzazioni, l’Amministrazione comunale ambrosiana provvedeva all’aggiornamento dell’ordinanza del 12.11.2003, attraverso
ordinanza del 19.4.2005, in attuazione peraltro della citata delibera di Giunta Regionale del
17.5.2004, art. 19.1, per la quale, fino alla definizione dei criteri di cui all’art. 9 l.r. 30/2003,
continuano ad applicarsi i parametri numerici di cui alla legge 25/1996, purché assunti prima
dell’entrata in vigore della l.r. 30/2003.
L’ordinanza sindacale del 19.4.2005, sopra menzionata, deve di conseguenza reputarsi, secondo il
Comune di Milano, un mero aggiornamento della pregressa ordinanza del 2003, anteriore alla l.r.
30/2003, ordinanza destinata a trovare applicazione in attesa dell’adozione dei criteri da parte
dell’organo consiliare.
Lo scrivente Tribunale, come del resto evidenziato dal Comune nelle proprie difese, ha sempre
ritenuto l’ordinanza sindacale del 19.4.2005 legittima, sia rispetto alle censure di incompetenza rivolte
contro la medesima (in quanto i criteri dovrebbero essere adottati dal Consiglio Comunale, stante la
l.r. 30/2003), sia per quanto concerne l’eventuale violazione delle norme statali e comunitarie poste a
presidio della concorrenza (si vedano le sentenza di questa Sezione, anche citate dall’Avvocatura
comunale, n. 2078/2006; n. 3674/2005; oltre a n. 1805/2007).
La legittimità dell’ordinanza comunale del 19.4.2005, in base alla quale sono stati adottati gli specifici
atti di diniego ivi impugnati, deve però essere riesaminata alla luce delle novità contenute nell’art. 3
del decreto legge 223/2006, convertito, con modifiche, dalla legge 248/2006.
In ordine a quest’ultimo sono però necessarie alcune precisazioni, anche per confutare le asserzioni
difensive della resistente.
In primo luogo, l’art. 3 non appare lesivo delle prerogative legislative regionali in materia di
commercio (e neppure di quelle regolamentari del Comune); posto che il legislatore statale (art. 3,
comma 1), ha cura di precisare che le disposizioni da esso introdotte attengono a due materie
riservate (ex art. 117, comma 2, della Costituzione), alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, vale
a dire la "tutela della concorrenza" (art. 117, comma 2, lett. e), oltre che la "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale  (art. 117, comma 2, lett. m).
Quanto sopra consente al Collegio di non affrontare, perché non rilevante ai fini della decisione, la
questione relativa alla sussistenza di una potestà legislativa esclusiva della Regione in materia di
commercio, affermata nelle difese della resistente.
In concreto, quel che rileva è il criterio della trasversalità delle materie, sul cui concetto la Corte
Costituzionale ha più volte avuto occasione di pronunciarsi (cfr. per tutte sentenza 1.10.2003, n. 303).
E come, già detto, nella variegata e generica nozione di “commercio” possono concorrere materie
differenti, alcune delle quali (appunto, tutela della concorrenza, strettamente legata al “commercio” e coinvolgente altresì rilevanti profili di diritto comunitario), oggetto di potestà legislativa esclusiva
statale.
Un’ulteriore precisazione sull’art. 3 legge 248/2006 è nel senso che lo stesso si applica non solo alla
disciplina generale del commercio di cui al D.Lgs. 114/1998 ma anche al settore specifico della
somministrazione di alimenti e bevande, attesa non solo la “ratio” della nuova disciplina, rivolta alla
maggiore liberalizzazione del mercato ed alla promozione della concorrenza, ma anche la chiara
dizione del comma 1 dell’art. 3 circa il proprio ambito applicativo (“… le attività commerciali, come
individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 e di somministrazione di alimenti e bevande
sono svolte …”).
In materia, occorre altresì ricordare l’importante parere reso dall’Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato del 7.6.2007 (pubblicato sul Bollettino dell’Autorità n. 22/2007), nel quale l’Autorità stessa
ha dapprima evidenziato la necessità di ricomprendere nell’ipotesi dell’art. 3, comma 1, lett. d), della
legge 248/2006, anche le attività di somministrazione di alimenti e bevande, posto che la scelta
contraria costituirebbe un “ostacolo normativo ad un corretto funzionamento del mercato”. Ancora, si
mette in luce nel parere come la programmazione degli insediamenti commerciali fondata su limiti
quantitativi predeterminati si traduce in una ingiustificata pianificazione quantitativa dell’offerta, in
contrasto con gli interessi generali.
Sulla base di quanto premesso, l’Autorità sottolinea come l’interpretazione della legge 248/2006
contenuta nella Risoluzione ministeriale del 10.10.2006 (risoluzione citata dal Comune a sostegno
delle proprie tesi difensive e sulla quale il Collegio si soffermerà più diffusamente nel prosieguo della
trattazione), appaia in evidente contrasto con lo stesso art. 3 della legge 248/2006.

Quanto all’applicazione temporale dell’art. 3, nessun dubbio che il medesimo trovi spazio nella
presente causa, posto che, ai sensi del comma 4 di quest’ultimo, le regioni e gli enti locali avrebbero
dovuto adeguare le proprie prescrizioni legislative e regolamentari ai principi ed alle disposizioni della
legge 248/2006 entro il 1.1.2007.
A tal proposito, ribadito quanto sopra esposto circa la natura dell’art. 3 della legge 248/2006, che
attiene a materie oggetto di potestà legislativa esclusiva statale, ritiene il Tribunale come il rapporto
fra quest’ultima e la normativa regionale non possa che individuarsi alla luce dell’art. 1 della legge
131/2003, recante “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla Legge
Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”.
In particolare, ai sensi del comma 2 della citata legge 131/2003, le disposizioni normative regionali
vigenti nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano a trovare applicazione
fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia. Di conseguenza, attesa la finalità dell’art. 3 della legge 248/2006, devono ritenersi ormai prive di
efficacia, quanto meno a partire dal 1 gennaio 2007 (termine per l’adeguamento da parte delle
Regioni e degli Enti Locali), le prescrizioni della legge regionale 30/2003 (in particolare l’art. 8, commi
1, 2 e 3 della succitata legge), non più compatibili con la legge 248/2006. Parimenti appaiono prive di
efficacia le disposizioni regionali di cui alla delibera di Giunta 17.5.2004, laddove attuative dei tre
commi del suindicato art. 8 della l.r. 30/2003.
Ciò premesso, in relazione alla legittimità degli atti comunali, non può condividersi la tesi difensiva del
Comune, secondo cui l’ordinanza del 19.4.2005 (la quale ha natura di atto regolamentare, posto che
la normativa regionale attribuisce ai Comuni un potere di completamento ed attuazione degli indirizzi
generali fissati dalla Regione stessa), sarebbe compatibile con la legge 248/2006.
Infatti, dopo aver ribadito, come già sopra esposto, che le novità della legge 248/2006 non si
riferiscono certo alle sole attività di cui al D.Lgs. 114/1998, reputa il Tribunale che l’attuale assetto
regolatorio comunale appare in contrasto con la lettera d), del citato art. 3, in forza della quale è
illegittimo imporre il rispetto di “limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume
delle vendite a livello territoriale sub regionale” ».
Ciò premesso, il Comune ritiene che la sentenza abbia erroneamente ritenuto applicabile alla
fattispecie l’art. 1, comma 2, parte seconda, della legge n. 131 del 2003: «Le disposizioni normative
regionali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla
legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle
disposizioni statali in materia» , mentre avrebbe dovuto farsi applicazione della parte prima della
stessa disposizione: «Le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vigore della
presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione regionale continuano ad applicarsi, in
ciascuna Regione, fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia». E ciò
perché, secondo l’assunto, la Regione Lombardia si sarebbe adeguata al “decreto Bersani” emanando
la legge regionale 27 febbraio 2007 n. 5, con la quale ha dettato disposizioni in materia di attività
produttive, sopprimendo, quanto alla somministrazione di alimenti e bevande, l’iscrizione al registro
abilitante (REC) e il superamento degli esami presso la Camera di commercio. 
La censura va disattesa


Il Comune, in primo luogo, muove dal presupposto, erroneo, che si verta in materia attribuita alla
competenza esclusiva delle regioni, mentre, come il primo giudice ha illustrato, sulla scorta della
giurisprudenza costituzionale sulla trasversalità di alcune materie (e come si ammette nello stesso
atto di appello, pag. 18), il “decreto Bersani” ha dettato disposizioni in area concernente la libera
concorrenza, riservata alla normazione da parte dello Stato.
In secondo luogo, l’allegazione della legge regionale n. 5 del 2007 non è producente, perché
l’adeguamento alla normativa statale, nella specie l’art. 3, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006, è stato
soltanto parziale, essendosi omessa ogni modifica quanto all’art.3, comma 1, lett. d) dello stesso d.l.
(limiti riferiti a quote di mercato predefinite), che viene in considerazione nella fattispecie.

Con ulteriori censure il comune di Milano ha denunciato:
- che il giudice di prime cure ha interpretato in maniera eccessivamente estensiva il criterio della
trasversalità della materia della libera concorrenza, pervenendo ad una conclusione che limita la
potestà legislativa esclusiva delle regioni, e che impedisce l’applicazione del principio di
sussidiarietà;
- che non sussiste contrasto tra la normativa regionale (L.R. n. 30 del 2003. D.G.R. del 17 maggio
2004) e comunale (ordinanza sindacale 19 aprile / 7 maggio 2005) e il “decreto Bersani”, perché
gli atti di indirizzo regionali e gli atti applicativi del sindaco non prevedono distanze minime o
quote di mercato garantite, e tendono al contemperamento del diritto di libera iniziativa economica
privata con la tutela di altri diritti di pari rango e degli interessi generali, una funzione che non può
privarsi del potere di emettere atti di programmazione dello sviluppo del commercio;
- che non è giustificata la prevalenza accordata al parere dell’Autorità garante della concorrenza e
del mercato del 7 giugno 2007, in contrasto con gli avvisi espressi con atti interni emessi dal
Ministero dello Sviluppo Economico (circolare esplicativa 28 settembre 2006 n. 3603/C e risoluzione
10 ottobre 2006 n. 8791);
- che la Corte di Giustizia dell’U.E. ha ritenuto compatibile con gli artt. 85 e 86 del Trattato la
limitazione del numero degli esercizi commerciali allo scopo di stabilire un equilibrio tra domanda e
offerta (sent. 17 ottobre 1995 in C. 140-141-142/94);
- che il numero massimo di autorizzazioni rilasciabili, secondo i criteri ritenuti illegittimi, è flessibile, e
può essere ulteriormente incrementato in funzione dello sviluppo economico della zona, della
fluttuazione della popolazione e delle esigenze di consumo alimentare extradomestico, nonché
della presenza di particolari strutture (alberghi, università, stazioni, isole pedonali, ecc.).

Le suddette censure non sono fondate

I rilievi di ordine generale, con i quali si tende a negare la interferenza di criteri limitativi di ordine
quantitativo in tema di apertura di nuovi esercizi commerciali, si pongono in contrasto frontale con la
lettura che dell’art. 3 della legge n. 248 del 2006 ha offerto la Corte costituzionale con la sent. n. 430
del 2007, nel solco di una giurisprudenza più volte confermata (n. 80 del 2006, n. 242 del 2005).
Secondo la Corte la disposizione, essendo diretta a rimuovere limiti all'accesso al mercato, sia
soggettivi, sia riferiti alla astratta predeterminazione del numero degli esercizi, sia concernenti le modalità di esercizio dell'attività, nella parte influente sulla competitività delle imprese, anche allo
scopo di ampliare la tipologia di esercizi in concorrenza, si inserisce nel quadro del processo di
modernizzazione del commercio, all'evidente scopo di rimuovere i residui profili di contrasto della
disciplina di settore con il principio della libera concorrenza.
Alla stregua di tali proposizioni, che convalidano la previsione normativa di principio qui in
discussione, limitazioni all’apertura di nuovi esercizi commerciali sono astrattamente possibili purché
non si fondino su quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite, ossia, in altri
termini, sull’apprezzamento autoritativo dell’adeguatezza dell’offerta alla presunta entità della
domanda. I principi del Trattato e del nostro ordinamento costituzionale impongono che i poteri
pubblici non interferiscano sul libero giuoco della concorrenza, astenendosi dallo stabilire
inderogabilmente il numero massimo degli esercenti da autorizzare in una determinata area.
Il Comune di Milano, ma anche la Regione Lombardia e la FIPE, contestano che il sistema risultante
dagli atti regionali e comunali impugnati si ponga in contrasto con il principio suddetto, ma non sono
in grado di rimuovere il dato obiettivo costituito dall’abbinamento dei due elementi utilizzati, la
delimitazione di una zona e il collegamento ad essa del numero massimo degli esercizi autorizzabili.
Anche ammesso che l’esigenza di interventi limitativi sia collegabile alla tutela di valori di rango
equivalente al principio di libera iniziativa economica, posto che questa non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41,
comma 2, Cost.), tra tali valori non può farsi rientrare la salvaguardia di una quota di mercato in
favore degli esercizi esistenti.
Sono infatti da condividere le proposizioni con le quali la sentenza appellata ha valutato la fattispecie,
mettendo in evidenza come «l’indicazione, effettuata dal Comune, di un numero di pubblici esercizi
per ogni 100 (o più) residenti (in questo si risolve infatti la determinazione del tasso di
concentrazione), equivale (i dati numerici della proporzione matematica non cambiano), ad indicare,
per ogni pubblico esercizio esistente, il numero ottimale di residenti ad esso relativo, e tale ultimo
numero altro non è che una “quota di mercato predefinita”, di cui all’art. 3 della legge 248/2006;
tenuto altresì conto che, trattandosi di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, tutti i
residenti sono potenzialmente consumatori nei suddetti esercizi, rappresentando quindi il “mercato” di
riferimento». (cfr. p. 12 sentenza appellata)
Va quindi confermato che il sistema difeso dall’appellante e dagli intervenienti ad adiuvandum si pone
in contrasto con le disposizioni della legge 248/2006, che, in attuazione del principio di libera
concorrenza, impediscono alle Amministrazioni di adottare misure regolatorie che incidano,
direttamente o indirettamente, sull’equilibrio fra domanda e offerta, che deve invece determinarsi in
base alle sole regole del mercato.
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Né occorre indugiare sull’inidoneità della prevista modificabilità del criterio ad elidere il ravvisato
contrasto: l’incremento della quota di esercizi autorizzabili, infatti, è il frutto di un apprezzamento
autoritativo volto ad una rimodulazione dell’offerta in base alla prevedibile domanda, affinché l’offerta
non risulti insufficiente, e ciò si risolve in un intervento di stampo dirigistico non conforme al principio
della libera concorrenza.

In conclusione l’appello va rigettato

L’appello incidentale della Panet s.r.l. tende alla riforma della statuizione di rigetto della domanda
risarcitoria.
Il T.A.R. ha ritenuto di non poter ravvisare il requisito della “colpa“ dell’Amministrazione, in
considerazione della complessità del quadro normativo di riferimento, mentre non sarebbe stata
offerta una prova soddisfacente del danno subito.
Ad avviso del Collegio, sebbene appaia incontestabile che il mancato rilascio dell’autorizzazione abbia
privato la società appellata degli intuibili vantaggi economici connessi all’ampliamento della attività
commerciale, la circostanza non consente di pervenire all’accoglimento della doglianza, perché la
statuizione dei primi giudici sul difetto della “colpa” merita condivisione.
A tale riguardo è sufficiente osservare che i provvedimenti negativi impugnati trovavano sostegno in
atti interpretativi del Ministero dello Sviluppo economico (circolare n. 3603/C del 20 settembre 2006,
risoluzione ministeriale n. 7891 del 10 ottobre 2006), emessi quando ancora non era stato adottato il
parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, datato 7 giugno 2007.
Né, d’altra parte, può essere messa in discussione la buona fede dell’Amministrazione, come dimostra
la pronta osservanza prestata alla sentenza del T.A.R., rilasciando alla società appellata Panet s.r.l.
una autorizzazione, pur condizionata all’esito definitivo del giudizio, alla somministrazione di alimenti e
bevande in zona “satura”.
La censura va dunque rigettata.
Sussistono valide ragioni per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, rigetta l’appello principale e l’appello
incidentale;
dispone la compensazione delle spese;
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 10 febbraio 2009 con l'intervento dei magistrati:
11
Raffaele Iannotta, Presidente
Gian Paolo Cirillo, Consigliere
Marzio Branca, Consigliere est.
Vito Poli, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
(depositata il 5 maggio 2009

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