Sul banco di… Steve Schneider

Steve Schneider, principal bartender Employees Only di New York

Drink in un lampo, senza inutili paillettes, fatti per la gente comune. Principal bartender dell'Employees Only di New York, Steve Schneider svela la sua arma segreta.

Questa favola racconta di una rinascita. La nuova vita di un ex marine, testardo e determinato, che ha trovato nel bar la via per risorgere dopo un periodo di profonda depressione. È la storia di Steve Schneider, “principal bartender” all’Employees Only, locale tra i più longevi di New York che ha fatto da precursore al fenomeno dei nuovi speakeasy in America e nel mondo. Ora, come si faceva ai tempi analogici, riavvolgiamo il nastro.
È il fatidico 11 settembre 2001. L’attacco alle Torri Gemelle scuote profondamente l’animo di tanti giovani americani che decidono di arruolarsi.
Tra loro c’è anche Steve che a 18 anni fa domanda. Un ragazzo, non troppo alto, ma dal fisico atletico che sin da bambino aveva voglia di riscatto. La riscossa l’ha cercata prima nella cultura e, dopo i tragici fatti americani, facendosi ossa (e muscoli) nei Marines. A pochi giorni dalla partenza per le zone di guerra, una banale rissa di strada lo riduce in fin di vita. Nessuna speranza apparente. Poi il mezzo miracolo, la riabilitazione durata tre anni, le cicatrici che porta fieramente come fossero medaglie. Schneider si avvicina timidamente al mondo del bar e scopre ben presto di avere un talento naturale. È la sua ancora di salvezza. Il resto è duro lavoro e risultati. Nel 2011 la prestigiosa guida Zagat lo inserisce tra i migliori giovani bartender di New York. Nel 2012 una competizione per il bartender più veloce d’America, ma soprattutto si fa conoscere e rispettare per l’affabilità, lo stile e lo charme che non fa mai pesare.
È quanto più distante possibile dal modello di barman arroganti. È stato tra i protagonisti di “Hey Bartender”, un documentario del 2013 che ha riscosso un buon successo e che narra della rinascita del fenomeno cocktail a New York. Steve è diventato un personaggio pubblico, molto riconosciuto, che ha fatto delle sue cicatrici uno sprone per andare avanti. Tempo fa ci siamo seduti in un salotto di Sydney in attesa del suo debutto come giudice in un concorso internazionale: la Bacardì Legacy. Un gruppo di signori lo riconosce e lo saluta. In America è quello che si definisce uno “startender”, passato in pochi anni dalle tenebre al red carpet di Hollywood. Accendo il registratore e trovo di fronte un ragazzo dai modi cortesi e la preparazione di uno che a scuola prendeva sempre A+ (il massimo), ma giocava a fare il pagliaccio coi compagni. Quanto di più lontano dallo stereotipo del Rambo tutto muscoli e grilletto.

Descrivici in due parole il “tuo” Employees Only
«Il bar è come un rifugio in cui le persone al tuo fianco hanno un obiettivo comune: il nostro è intrattenere la gente. Fare drink buoni, in poco tempo e senza inutili paillettes. Le nostre postazioni sono agli antipodi del concetto di ergonomia. Per lavorare ci muoviamo da un posto all’altro. E ogni sera misceliamo e balliamo. Si fa festa con gli ospiti, sempre nel rispetto dei rispettivi ruoli. L’Employees Only è stata la mia palestra professionale, ma anche un luogo dove sono nate amicizie sincere. Devo tutto al mio mentore e amico Duschan Zaric. la mente della miscelazione all’Employees Only, insieme agli altri soci e fondatori del locale: Jason Kosmas, Igor Hadzimajlovic, Henry LaFargue e Billy Gilroy».

L’anno scorso sei stato a Roma per un seminario di due giorni. Com’è andata?
Parlare così tanto davanti a un gruppo di professionisti attenti e curiosi è stato impegnativo. Ho cercato di raccontare il mio lavoro di tutti i giorni e le mie abitudini. Niente di più. Non sono un fissato di miscelazione di ricerca.A differenza del resto d’Europa, ma soprattutto dell’Asia, gli italiani non sono timidi e fanno sempre un sacco di domande interessanti. L’esperienza italiana è stata un momento di crescita anche per me. Grazie all’invito di Matteo Zed e allo staff di Sviluppo Horeca Factory ho avuto l’opportunità di apprezzare le vostre eccellenze: bitter, amari, liquori tipici. Tutti prodotti che stanno avendo un grande successo a New York.

La vostra ricetta segreta per far felici gli ospiti?
Un bar, buoni drink in tempi rapidi e un servizio attento.

Qual è il tuo rapporto con gli aperitivi italiani?
Direi ottimo. Ho la mia trilogia perfetta. Prima del turno parto con un Negroni (massimo uno!), durante la serata un Americano e a fine serata, per rilassarmi, preparo uno Spritz. Adoro la cultura dei vermouth, degli amari. Dal Fernet Branca al Borghetti. Una parte di rum, una di Caffè Borghetti, ghiaccio e faccio felice molti ospiti.

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