Sul banco di Jacques Bezuidenhout

Bartender sudafricano di 41 anni, ha lavorato dappertutto e, dalla cucina al bar, sa alla perfezione come far funzionare un locale. Un'esperienza che mette al servizio di catene di hotel e ristoranti. È arrivato anche in Italia dove si è innamorato di Fernet Branca.

Gioviale, sorridente, sicuro di sé ma anche aperto e disponibile, così com’è abitudine di quei professionisti che hanno girato talmente tanti posti da essere divenuti ormai cittadini del mondo. Jacques Bezuidenhout, uno dei più noti mixologist degli Usa, fa sicuramente parte di questa categoria: sudafricano d’origine si è trasferito presto a Londra e poi si è stabilito a San Francisco, dove ha lavorato a lungo per catene di hotel e ristorazione prima di aprire il suo cocktail bar, Forgery. Jacques non è solo un mixologist, ma un vero e proprio businessman, sempre alle prese con nuovi ruoli: noi lo abbiamo incontrato a Milano, dove sta curando la regia di due cocktail bar collegati alla steakhouse STK all’interno dell’hotel ME Milan il Duca di Meliã a Milano: uno nella lobby e uno nella sala ristorante.

A volte ti definiscono master bartender, altre master mixologist. Quali dei due termini ti descrive meglio?
Sono un po’ l’uno e un po’ l’altro. Non puoi fare questo mestiere senza conoscere la tecnica e senza avere una conoscenza profonda dei prodotti che si utilizzano. È la cultura che ti fa fare la differenza e ti permette anche di, sperimentare, creando nuovi gusti e sapori.

Come hai affinato queste capacità?
È tutta una questione di esperienza. Bisogna farne tante e diverse. Io ho iniziato a Londra a lavorare nella cucina di un ristorante, facevo il commis. Poi ho fatto il cameriere. Poi ho lavorato nei pub. Tutto questo mix di lavori ha aggiunto, tassello dopo tassello, le conoscenze. In una città come Londra, per esempio, c’è un rapporto cordiale ma distaccato con le persone che stanno dall’altra parte del banco: ti chiedono tutti “come stai?” oppure “com’è andata oggi?”, ma poi ci si ferma lì. Negli Stati Uniti, invece, le persone si siedono al bancone e non si limitano a chiederti un drink. Vogliono proprio parlare, creare un rapporto. Puoi essere il bartender più bravo del mondo, ma se non sai comunicare è meglio che cambi mestiere.

Come sei arrivato qui a Milano per curare l’impostazione dei NY Style Bar di STK?
È una lunga storia. Per molti anni negli States ho lavorato per una catena di hotel e ristoranti (Kimpton, ndr) con almeno 65-70 locali in tutto il Paese e io curavo la drink list e la presentazione dei drink. Poi un manager di quel gruppo, John Inserra, è entrato in The One Group (attualmente ricopre il ruolo di chief operating officer, ndr). Siamo molto amici e tre anni fa mi ha chiamato per lavorare all’impostazione dei cocktail bar della compagnia. Al The One Group c’è una stretta connessione con la ristorazione, quindi è fondamentale saper dialogare con gli chef per armonizzare le proposte beverage. In questo la mia esperienza passata in cucina mi ha aiutato molto. Ora che hanno deciso di aprire a Milano mi hanno chiamato qui per un breve periodo di avviamento e training.

Che cosa significa “curare la regia” di un cocktail bar?
Significa non soltanto definire la drink list, ma anche formare lo staff, verificare che abbia le conoscenze tecniche giuste ma anche che sappia compiere quei gesti che aggiungono valore alla preparazione. Devo dire che qui in Italia ho riscontrato un altissimo bagaglio tecnico, direi superiore alla media che si trova negli Usa. Non ho avuto bisogno quindi, di spiegare loro come si prepara un classico. Ci siamo concentrati soprattutto sulle rifiniture e sulla gestualità. Per esempio come strizzare la scorza d’arancia sull’Old Fashioned prima di servirlo. Particolari che danno un tono al servizio.

Quali spirits apprezzi di più, con quali lavori meglio?
Anche in questo caso i miei gusti sono stati dettati dalle mie esperienze. La mia permanenza a Londra mi ha consentito di conoscere e apprezzare i whisky, mentre l’esperienza in California mi ha portato a lavorare con gin e Tequila. Per quanto riguarda i prodotti italiani sono soprattutto gli amari a intrigarmi. La mia versione dell’Old Fashioned prevede per esempio l’impiego del Fernet Branca. John Inserra, che è italo-americano, mi raccontava che sua mamma da piccolo gliene dava spesso un cucchiaino come ricostituente. In effetti, trovo che sia un prodotto molto interessante oltre che radicato nella tradizione.

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