Dop penalizzati dalla dimensione

Mercato –

L’Italia è la nazione europea con il maggior numero di prodotti tipici, ma le singole aziende spesso sono troppo piccole per ottenere un buon export

Ci consideriamo il paese del mangiar bene per eccellenza. Ci riteniamo la patria della dieta mediterranea. Ci vantiamo di avere produzioni agricole uniche e di elevata qualità. E siamo anche la nazione europea con il maggior numero di denominazioni Dop e Igp: ben 164, pari al 21,6% del totale. Dunque, perché dubitare che l'Italia sia in grado di diventare il distretto mondiale dell'alimentare? In realtà, se dalle parole, dai numeri e dalla storia si passa all'analisi dei fatti, la risposta positiva non è così scontata. E la situazione mostra molte ombre.

Lo studio di Nomisma: numeri troppo piccoli
Partiamo dalle denominazioni d'origine concesse dall'Unione Europea: siamo sicuri che servano davvero e abbiano automaticamente un risvolto commerciale? Guardando al giro d'affari dei prodotti Dop e Igp non sembra affatto così. Secondo le stime di Nomisma (www.nomisma.it), i primi 10 prodotti Dop e Igp italiani coprono l'85% del valore alla produzione dei prodotti a denominazione d'origine, che ammonta a 4.600 milioni di euro. In altre parole, i restanti 154 alimenti Dop e Igp fatturano complessivamente alla produzione solo 690 milioni di euro. Ossia 4,5 milioni l'uno. Numeri ridicoli per prodotti che dovrebbero rappresentare i gioielli del made in Italy sul mercato nazionale e nel mondo. Sarebbe interessante a riguardo fare un censimento delle denominazioni “giacenti”, un po' come lo Stato ha fatto di recente per i conti correnti bancari. Sicuramente se ne scoprirebbero delle belle, a partire dalle denominazioni esistenti solo sulla carta o richieste per mero spirito di politica locale o campanilismo. «Le denominazioni Dop e Igp - dice Denis Pantini di Nomisma - sono punti di partenza e non di arrivo: il consumatore non è disposto a pagare di più un prodotto con il bollino se non lo conosce. Occorre affiancare al riconoscimento comunitario uno sviluppo promo-commerciale dei prodotti a marchio».

Una scarsa commercializzazione
A maggior ragione questo discorso vale sui mercati esteri. Se guardiamo a quanto vale l'export italiano di Dop e Igp arriviamo a 936 milioni di euro contro i 2.200 milioni totali del comparto alimentare. Meno di un prodotto tipico su cinque (per la precisione il 18%) viene venduto fuori dalle nostre frontiere. Le ragioni? Innanzitutto la struttura frammentata del settore, come rileva uno studio condotto da Bain&Co e presentato a in un convegno organizzato da Metro Italia, e la conseguente incapacità di mettere in atto adeguate strategie di crescita che permettano di affermarsi sul mercato globale. Un dato che dice tutto sulla situazione in cui versano le nostre produzioni è il seguente: a commercializzare i prodotti tipici sono solo poco più di 3mila imprese contro le oltre 107mila che si occupano solo di produzione.

I casi dell'olio Monti Iblei e del Chianti
Ma, nonostante questa forbice, per i tipici c'è spesso anche un problema di quantità. Emblematico il caso dell'olio extravergine di oliva Monti Iblei Dop, che manda all'estero circa il 25-30% della produzione, nella scorsa campagna pari a 1.600 quintali di olio, ma che vive nell'export una fase di stasi, anche perché non avrebbe nemmeno i numeri per soddisfare un aumento della richiesta. Eppure si tratta di un prodotto Dop citato in diversi studi come una case history d'eccellenza. Altro esempio su cui riflettere è quello dell'olio extravergine di oliva Chianti Classico Dop, che, pur molto richiesto all'estero, non può soddisfare la domanda per mancanza di prodotto. Se questo può rivelarsi un atout vincente nello sviluppo di un'economia del territorio, diventa un limite alla crescita sui mercati esteri. Anche perché, come sottolinea Bain&Co, l'offerta di articoli esclusivi è uno dei requisiti indispensabili per fare il successo di un'impresa all'estero.

La necessità di un impegno a lungo termine
Le imprese che vanno meglio nel mercato globale sono quelle che hanno un business fondato su elementi distintivi e profittevole. Ma che hanno anche manager aperti al rischio e pronti a scommettere sul futuro, nonostante la piccola dimensione dell'azienda alimentare italiana rimanga una barriera all'espansione internazionale. «Anche se siamo strutturalmente svantaggiati, il nostro alimentare mantiene quota nel commercio mondiale ed è su una traiettoria positiva - commenta Marco Costaguta di Bain&Co -. Certo, ognuno (manager, imprenditori, istituzioni) deve fare la sua parte, perché non si riesce ad avere successo senza uno sforzo collettivo. Il punto chiave è progettare su un orizzonte di lungo termine». Occorre, dunque, un lavoro di squadra, altrimenti questa volta rischiamo veramente di rimanere al palo.

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