Cucina italiana, rifondiamola così

Manifesti –

Martino Ragusa, gastronomo e scrittore, ha dato vita con la cantina siciliana Carlo Pellegrino al Manifesto della cucina italiana. Linee guida: partire dalla tradizione per trarre ispirazione e usare materie prime il più possibile di produzione nazionale

Cucina creativa, tecnoemozionale, molecolare, cucina nuovissima: è incredibile ma pare che il termine “cucina” da solo non abbia più dignità, occorre appiccicargli un aggettivo, più o meno azzeccato. Mi chiedo se i primi anni del nuovo secolo saranno ascritti alla Storia come forieri di nuovi movimenti culinari oppure anni bui, caratterizzati da una generale perdita di identità. In tutto questo guazzabuglio c'è chi prende le distanze e preferisce tornare a parlare di cucina, semplicemente. Lo ha fatto Martino Ragusa in occasione della quinta edizione del Pellegrino Cooking Festival, con un documento in cui si delinea la cucina nazionale italiana, quella cara a Pellegrino Artusi, che nel suo celeberrimo “Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene” del 1891 realizzò la prima sintesi della cucina italiana. E pur se l'Italia di Artusi rappresenta un quadro parziale della gastronomia tricolore descrivendo più che altro la tradizione culinaria tosco-emiliano-romagnolo, Martino Ragusa riparte da qui per tracciare le direzioni di lavoro.

In Europa sono i cuochi a farsi carico di codificare i movimenti culinari. In Italia gli intellettuali che valore aggiunto danno?
Credo che l'intellettuale, come chiunque altro, abbia diritto di parola. E chiunque mangi e paghi un conto ha diritto di dire la propria. Se questa persona poi è vicino ai cuochi, come capita a me tutti i giorni, meglio ancora.

Ma c'era bisogno di un manifesto della cucina italiana?
Non esiste una cucina nazionale italiana. Esiste piuttosto una cucina di pianerottolo, con le ricette che variano nel giro di pochi metri. Ma se per noi italiani è difficile pensare a una cucina nazionale, non è così per gli stranieri che invece sembrano avere le idee molto chiare sulla nostra identità gastronomica. Le icone del mangiare all'italiana sono più o meno: pizza, maccheroni, spaghetti, parmigiano, risotto, Chianti, espresso e cappuccino. E gli spaghetti alla bolognese, soprattutto nella versione in scatola: gli inglesi ne consumano 670 milioni di scatole l'anno, come dire che per ben due volte alla settimana ogni inglese è convinto di mangiare italiano aprendo una di quelle scatole. Abbiamo tutto il diritto di rimanere perplessi, ma anche il dovere di domandarci se non sia un po' colpa nostra che non abbiamo saputo fare una comunicazione efficace sulla cucina nazionale.

Carlo Cracco ha preparato la cena a Parigi in occasione della candidatura di Milano per l'Expo 2015. Abbiamo iniziato bene, o no?
Nulla di personale, ma comincio a essere insofferente verso questo Gotha di chef sempre più scollati dalla realtà, di questo Empireo frequentato da maître à penser a cui non interessa più un territorio ben cucinato, ma sofismi gastronomici che vanno bene per ragionare, non per nutrire. Non sono questi sofismi che mi vengono in mente quando penso a una cucina nazionale italiana. Esistono invece cuochi di talento che si sentono un po' “sfigati” perché magari hanno una pizzeria che gli serve per campare. Cuochi capaci di rivisitazioni geniali, ma che rimangono sconosciuti. Come risollevare le sorti di questi uomini? Creando, per esempio, un contenitore dove possano essere collocati. Il mio manifesto è questo contenitore.
Risollevare l'economia delle imprese della ristorazione. Un tema che dovrebbe richiamare l'attenzione delle istituzioni, eppure tutto è partito dall'iniziativa privata. Non è sconcertante?
La Carlo Pellegrino è avanti anni luce. Sulle prime non c'era l'idea di un manifesto, mi avevano contattato per dare contenuti alla quinta edizione del Pellegrino Cooking Festival. Ma quando ho proposto loro l'idea di un manifesto, hanno sposato il progetto. Quanto alle istituzioni, durante la manifestazione è arrivata la telefonata del ministro delle Politiche Agricole, Luca Zaia, per comunicare l'intenzione di sottoscrivere il manifesto, rimasta finora lettera morta.

E come ha reagito la comunità degli chef?
Sul sito ilgiornaledelcibo.it sono arrivate circa 200 adesioni di cuochi professionisti e ho avuto un primo incontro con Paolo Marchi per discutere il mio manifesto al prossimo convegno di cucina d'autore, Identità Golose. Ma anche la comunità dei liberi cittadini ha risposto bene: il sito conta 70.000 utenti unici mensilmente. Il che non è poco, ma non abbastanza.

Devi ammettere però che in quest'ultimo periodo abbiamo assistito a ogni sorta di dichiarazione di principio. Perché?
Viviamo un vuoto confusivo: una situazione paradossale dove c'è una totale assenza di cardini da un lato e un eccesso di proposte dall'altro. Meglio fare tabula rasa perciò, ripartire da zero dettando nuove condizioni. Ben vengano perciò nuovi manifesti. Alla fine si prenderà il migliore o si arriverà a una sintesi di tutti.

Valorizzare o salvaguardare il prodotto tipico sembra l'ossessione di molti. Eppure la quota di prodotti acquistata dalla ristorazione non supera il 10% della produzione italiana.
Il dato non mi stupisce. I prodotti tipici costano molto. Più spesso perciò si elaborano piatti tipici dove il prodotto tipico non c'è.

Come la metti con il concetto di glocal che hai mutuato da Russel Robertson?
Cerchiamo di non far diventare le parole una prigione. I cuochi italiani hanno individuato la strada della rivisitazione dei piatti tradizionali con la sperimentazione di nuovi accostamenti mai tentati tra i prodotti di luoghi anche molto distanti. Il prodotto locale ha cominciato a circolare e a essere conosciuto, usato e apprezzato lontano dal luogo di origine, è diventato globale o glocal. Occorre però dire che in questo caso si tratta di una miniglobalizzazione perché il “glocal” cui mi riferisco è delimitato dai confini nazionali con solo qualche concessione ragionata al vero esotismo, inteso sia in termini di prodotti, che di procedure e concezioni del pasto.

Cosa intendi quando dici che occorre ispirarsi al lavoro del cuoco bricoleur?
Mi riferisco alla figura del bricoleur di Claude Lévi- Strauss, che lavora per trasformare l'esistente, per riorganizzarlo senza distruggerlo, figura dallo stesso Lévi-Strauss contrapposta a quella dell'ingegnere che guarda subito avanti e punta direttamente all'innovazione sulla base di un progetto studiato a tavolino. Il bricoleur, per prima cosa si guarda intorno e indietro, si concentra su quello che vede e incontra. Studia il suo uso originario e immagina un uso nuovo e magari cioè non-pertinente all'uso consueto. I cuochi italiani, quelli che prima ho definito “sfigati”, incarnano l'immagine del bricoleur di Levi-Strauss. Osservano, assemblano, sperimentano e infine investono sui loro risultati con una buona quota di rischio personale.

Cucina, arte o mestiere?
La cucina è artigianato, a volte di livello talmente alto da somigliare all'arte. Ma bisogna credere nel proprio potere creativo. I cuochi italiani invece creano una ricetta e poi la cambiano. Se vogliamo parlare di arte, le ricette di oggi sono opere d'arte usa e getta. È ora di cambiare rotta.

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