Sul banco di Dom Costa

Trend –

Le pastoie della burocrazia, il ruolo delle competizioni, la centralità della formazione: il barman e barmanager ci racconta la sua visione attuale e predice il futuro del bar

Bargiornale è andato dietro al banco
di Dom Costa. Con lui si è parlato
poco di drink e molto di vita da bar e
delle problematiche degli operatori.
Temi come le difficoltà burocratiche,
la gestione del personale, la formazione
e molto altro. Ecco quello che
ci ha raccontato.

Quali consideri i freni maggiori imposti
dalla burocrazia al sistema
bar italiano?

In primo luogo il complesso sistema
di gestione del personale. Già a
partire dall'assunzione, un datore di
lavoro deve avvalersi del commercialista
per sbrigare pratiche lunghe
e complicate: il tutto si traduce in un
costo di circa 80 euro, altrettanto
costa un licenziamento. La busta
paga è poi complicata da leggere,
impossibile da fare da soli, solo il
commercialista al costo di 40 euro
ti risolve il problema. Aggiungiamoci
il Cud ed ecco che un lavoratore
costa, in pratiche burocratiche, circa
700 euro l'anno. In nessun altro Paese
europeo ci sono situazioni simili.
E veniamo agli studi di settore. Questo
sistema delirante è il più grosso
freno alle nuove assunzioni. Nell'industria
dell'ospitalità non si vende
un prodotto ma un servizio, avere un
dipendente in più non si traduce in
un maggiore incasso, ma nell'offrire un servizio migliore. Un ristorante di
50 coperti in Gran Bretagna ha uno
staff di almeno 20 persone, in Italia 6
addetti sono già considerati troppi.

Un altro percorso a ostacoli può
essere considerato l'Haccp?

Certo, è una delle più grosse bufale
inventate dai burocrati, non solo
italiani, ma europei, mettendo sullo
stesso piano grandi multinazionali
dell'industria alimentare e piccole
aziende artigianali. Nel resto d'Europa
la legge è stata recepita in modo
molto “light”, ma nel nostro Paese i
burocrati hanno applicato la legge
nella sua integralità, penalizzando le
piccole attività. Intanto nella vicina
Francia le aziende agricole continuano
a produrre i formaggi nei fienili.
Corsi, adeguamenti, manuali spessi
come la Divina Commedia, fanno il
resto. Nel resto d'Europa non esistono
i famigerati corsi Haccp, sostituiti
spesso da un manualetto.
E vogliamo parlare di cartelli e tabelle?
In Italia sembra che se si espone
una di queste inutilerie si salva la vita
delle persone. Orario di apertura, divieto
di fumo, tabella alcolometrica,
ce n'è una per ogni cosa. E i giochi
proibiti? Mi spiegate chi oggi gioca
a lanzichenecco, quando ci sono le
newslot a ogni angolo, con il placet
dello Stato?

Com'è cambiato il mondo del bar da quando hai iniziato?
Negli anni '70 i cocktail bar si chiamavano “American Bar”,
erano quasi solo nelle città, nei grandi alberghi; luoghi che
quasi intimorivano, con barman molto compìti; l'offerta era
quella dei cocktail internazionali dell'Iba, non c'erano fancy
drink e il whisky era il distillato più gettonato.
Gli anni '80 anno visto il primo grande cambiamento: le grandi
catene americane hanno imposto il loro stile, con drink
colorati, l'uso smisurato dello sweet & sour, ma allo stesso
tempo hanno imposto nuovi standard di lavoro da noi allora
sconosciuti: il flair e il working flair.
Gli anni '90 sono stati i più importanti. Dick Bradsell e il suo
Atlantic Bar & Grill, hanno cambiato il modo di bere in Gran
Bretagna, negli Stati Uniti e in Europa, creando un business
che prima non c'era. I barman si trasferivano a Londra, mecca
del bere miscelato, per imparare nuove tecniche e rientrati
in Italia davano il loro apporto a un settore in crescita.
Nel 2000 si è visto un forte cambiamento in tutto il mondo
del bartending italiano: nuovi locali, nuove tecniche di lavoro,
nuovi ingredienti, nuovi distillati e liquori. Il grande ritorno dei
classici ha fatto il resto.
Nell'ultimo decennio, con l'aiuto dei voli low cost le distanze
sono diminuite, centinaia di barman italiani viaggiano in giro
per l'Europa ad assistere ai vari Bar Show: Londra, Amsterdam,
Berlino, Mosca, Parigi, sono ora le mete preferite di
giovani assetati di apprendere qualcosa di nuovo sul bere
miscelato. E nascono nuove e impegnative cocktail competition
che danno lustro e fama ai vincitori. Non è poco.

Oggi i barman sembrano più preparati di un tempo. Si
stanno facendo strada mixologist, liquid chef e spirit evangelist.
È un buon segno per la bar industry, non trovi?

Direi di sì, un tempo non esistevano le attrezzature che si
trovano oggi, gli ingredienti erano limitati, non esistevano né
BarShow, né seminari e soprattutto non c'era Internet. Tutta
l'industria trae sicuramente grandi benefici da tutto questo.

Dopo Milano, anche a Roma si stanno concentrando tanti
seminari interessanti per i barman. Ueno san, lo storico
Wondrich, il mixologist Jim Meehan e adesso sono
in arrivo Gaz Regan e Luca Cinalli del Nightjar di Londra.
Quanto pensi incideranno sulla crescita professionale?

Trovo questo trend assolutamente positivo, l'arrivo in Italia
di personaggi di grosso calibro internazionale non può che
essere positivo per la crescita professionale dei giovani barman
e comunque per l'intero settore.

Dagli Usa all'Europa, si fa avanti una frangia
di barman che conduce una lotta alla
massificazione, alle grandi imprese, ai prodotti
commerciali. La tua opinione?

Sono gli integralisti del bartending, che a
volte scordano di essere ribelli e fanno educational
su prodotti che di artigianale hanno
ben poco... ma sai com'è, “ pecunia non olet”.
Se il mondo del bartending oggi beneficia di
corsi e seminari gratuiti è anche grazie alle
multinazionali, senza il loro supporto molti
eventi non sarebbero mai stati realizzati.

L'Aibes è stata molto criticata e da tempo
circola la voce di uno scisma. Tu come la vedi?

L'Aibes è stata per molti anni l'unico interlocutore delle aziende,
forse il cambio repentino che ha avuto il mercato
l'ha colta un po' impreparata, ma si sta prodigando in varie
iniziative su tutto il territorio. Se la critica arriva dagli associati
avranno le loro ragioni per farlo, se arriva dall'esterno
potrebbero esserci delle strumentalizzazioni. Sulla possibile
scissione, se parte degli associati non sono in linea, hanno
tutto il diritto di staccarsi e fondare un'altra associazione,
questa si chiama democrazia.

Le cose più importanti che hai imparato dalla tua carriera
di barman e di ambassador?

Come barman ho imparato che non si smette di imparare.
Considerarsi arrivato e pensare di sapere tutto è una concezione antiquata: in un mondo che cambia
in continuazione, a una velocità impensabile
fino a qualche anno fa, non si può non essere
aggiornati. Bisogna essere assolutamente
prondi ad adeguarsi ai cambiamenti e alle
novità del mercato, cercare di essere sempre
“sul pezzo”. Come ambassador ho avuto modo di vedere
dall'interno come si muovono le grandi aziende, come
operano sul mercato, come prendono le decisioni, come
portano avanti azioni di marketing, come organizzano gli eventi,
piccoli o grandi che siano. C'è sempre dietro una cura
maniacale dei dettagli a partire dal budget che considerano
sempre una cosa “sacra”. Consiglio ai giovani barman che
ambiscono a diventare ambassador di farlo il più tardi possibile:
un bartender deve stare dietro il banco del bar il più a
lungo possibile, il bancone è una delle più complete scuole
di vita, una volta che lo si abbandona è poi dura ritornare.
Ivano Fossati in una sua canzone diceva “Un comandante
per quanto giovane dovrebbe stare in mare”: ecco, è esattamente
come un barman, per quanto giovane dovrebbe
stare dietro un banco. Finché ce la fa.

Chi è Dom Costa

Dom Costa è fra le voci più autorevoli della
bar industry nazionale e non. Fa parte con Dario Comini, Agostino Perrone e
Luca Pirola di un quartetto di esperti riuniti sotto la sigla del sito bartender.it.
Nel suo curriculum esperienze di tutti generi, dalle navi da crociera ai tempi
di Love Boat al cocktail bar Liquid di Alassio. Oggi lavora come consulente per
l'azienda di settore Velier. Con Bargiornale collabora dai tempi d'oro di
Franco “Zio” Zingales.

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